L’annuncio è qui davanti a me, accompagnato dal logo, che ha colori acidi e colanti: da martedì 8 a domenica 13 aprile Xing presenta la terza edizione di Live Arts Week. Bologna, 2014. La ragazza dall’orecchino di perla si gira, basita, per comprendere bene quali saranno le sedi degli eventi. Pure lei non se li vuole perdere, tra un tortellino da Eataly e Beppe Maniglia, che in piazza Maggiore squaderna classici del rock per famiglie e single incanutiti in furioso rimorchio (il modello insuperabile rimane il duo Gigi e Andrea) durante oziose passeggiate domenicali. L’orecchino brilla (circolo di confusione), l’orecchio si tende: tre le sedi in cui avranno luogo gli eventi, gli spazi di MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, cuore del programma, più le iniziative collaterali in Biblioteca Salaborsa e presso il Cinema Lumière, sede della Fondazione Cineteca.

Che cos’è Live Arts Week? Un evento unico in Italia dedicato principalmente alle live arts, qualcosa come un’irriducibile volontà di giocare con la temporalità. Incunearsi in un’impossibile presente/presenza paradossale, giusto per comprendere meglio che questo gesto, la sua ricaduta, non è che una specie di ferita che apre alla memoria, a infinite temporalità. E’ un gesto inaugurale che permette di decollare, e vagare nel tempo. Semplici forme di choc ben controllate: il tempo cola come nei dipinti di Dalí, rallenta, oppure accelera, si sgretola, si arresta, in una specie di sincope. Come se l’idea della diretta, di una fisicità («un insieme eterogeneo di performance che ruotano intorno alla presenza e all’esperienza percettiva di corpi, movimenti, suoni e visioni, con un programma-palinsesto di opere dal vivo – ambienti, performance, concerti, live media, film e expanded cinema, con date uniche, produzioni e anteprime – presentate da personalità di spicco della ricerca contemporanea internazionale») non facesse che accentuare un regime psichico la cui ricaduta, temporale, facesse sembrare il presente un colabrodo dentro cui incunearsi, o scivolare.

Silvia Fanti, Daniele Gasparinetti, Andrea Lissoni, gli ideatori di questo progetto, hanno le idee chiare al proposito, e vedono Live Arts Week come una precisa «scelta di lanciare una ‘settimana’ che intende rompere con la concezione di un festival visto come punta consumistica della vita culturale di una città. Si tratta piuttosto di una coabitazione di forme diversificate – per dimensione ed intensità – concentrate in un tempo limitato che propongano la visione dell’arte come un fatto complesso ma coeso». Cristallizzazione, concentrazione di eventi, quasi una gara di resistenza con il pubblico, un esperimento da laboratorio. Non mi stupirebbe se il nostro trio avesse aggiunto anche un’invisibile figura sadica al progetto, se avesse pianificato questa settimana delle arti anche come un test in cui lo spettatore funga da cavia: qualcosa che incrocia l’etnologia, gli studi sperimentali sulla folla, la fisiologia.

Gli artisti giungono da più continenti: Mette Edvardsen (N/B) / Ken Jacobs (USA) / Aki Onda (USA/JP) / Daniel Löwenbrück (Raionbashi) (D) / Doreen Kutzke (D) / Barokthegreat (I) / Èlg (F) / Maria Hassabi (USA/Cipro) / Ben Vida (USA) / MSHR (USA) / Enrico Boccioletti (I) / Marco Berrettini (CH) / Rashad Becker (Syria/D) / Porter Ricks (Thomas Köner/Andy Mellwig) (D) / Neil Beloufa (F) / Dora Garcia (E) / Gaëlle Boucand (F) / Ben Rivers/Ben Russell (GB/USA) / Canedicoda (I).

Per chi scrive, martedì 8 aprile alle ore 21 si terrà l’evento per eccellenza del Live Arts. Si tratta dell’inaugurazione presso il MAMbo, del Nervous Magic Lantern «storico happening di expanded cinema presentato ora, per la prima volta in Italia, dal pioniere del cinema sperimentale Ken Jacobs con l’intervento sonoro dal vivo di uno dei protagonisti dalla musica d’avanguardia newyorkese, Aki Onda». Qualche bolognese ricorderà forse la proiezione di Tom Tom The Piper’s Son (1969), durante il Cinema Ritrovato di diversi anni fa (faceva parte del programma “Cinema al quadrato”, curato da Sergio Fant, Paolo Simoni e Pauline de Raymond), ma forse il film era già stato proiettato al Link anni prima. Si tratta di un film la cui importanza aumenta nel corso degli anni, una specie di faro per la successiva voga del “found footage” (e non solo). Ed è solo uno dei vertici raggiunti da Ken Jacobs (basti ricordare il monumentale Star Spangled to Death), un filmmaker strabiliante. Qui, con il suo Nervous Magic Lantern, gli spettatori avranno modo di comprendere cosa significhi riflettere, analizzare, portare alle estreme conseguenze il concetto di “proiezione”, un gesto che con l’avvento del DCP nei multiplex rischia di scomparire. Ken Jacobs, invece, ci fa comprendere come questa proiezione di luce possa essere qualcosa di creativo, luciferino. Deformazioni, anamorfosi, tutto un bric a brac da pre-cinema (Robertson e la lanterna magica), ma spinto in una direzione 3D: coni di luce, flicker, soglie verso quella quarta dimensione una volta tanto bramata e che non è altro che tempo ulteriore, un nuovo tempo che il film rende presente, evidente, percepibile (bene hanno fatto i curatori ad inserire nel libro che accompagna il Live Arts Week il magnifico saggio che Tom Gunning ha scritto su Jacobs, nel 1989, in un catalogo che accompagnava una retrospettiva dei suoi film, curata da David Schwartz: Films that tell time: the paradoxes of the cinema of Ken Jacobs). Insomma, un evento, un’apertura da non perdere assolutamente.

Due le installazioni ospitate lungo l’intera settimana, dentro MAMbo, comprese alcune varianti: «Waiting Room, dell’artista e compositore tedesco Daniel Löwenbrück, è un ambiente, una stanza nera all’interno di una stanza bianca: una scatola esistenziale per due persone poste faccia a faccia. Rumori distinti, silenzio introspettivo, suoni del corpo, debolezza e imbarazzo». E poi Processo al Mochi/The size of a green pea, «un ‘video-giardino’ che ospita un campionario di efflorescenze – delicate o mostruose – da lui collezionate nel corso degli anni da YouTube. Presentando per la prima volta una selezione di preferiti dal suo vasto archivio da Canedicoda. E poi Time has fallen asleep in the afternoon sunshine, letture di libri in Salaborsa, in una specie di Fahrenheit 451 reloaded. Memoria tramandata, libri viventi coordinati dalla performer norvegese Mette Edvardsen, la quale ha reclutato un gruppo di persone che hanno imparato a memoria un libro e che il pubblico potrà “consultare”, in un angolo dello spazio bibliotecario.

Grande attesa per i tape concert di Aki Onda. Bassa fedeltà (vecchi walkman a cassetta) e una serie infinita di variazioni stratificate tra suoni captati, echi, rumori. Fruscii analogici. Una sorta di diario sonoro diffuso e selezionato per l’occasione dallo stesso artista, figura eclettica che si muove tra fotografia, musica elettronica, composizione, produzione e scrittura. Come indicano i curatori: «Ad Aki Onda piace praticare questo strano rituale in spazi precisi – edifici storici, angoli di strada, fabbriche abbandonate, o, come nel caso di MAMbo a Bologna, una vecchia fabbrica di pane trasformata in museo. Confrontandosi con l’acustica, l’architettura e la psiche di uno spazio ha luogo una risonanza. Le memorie vive risvegliano quelle addormentate».

E ancora una serie di film d’artista presso le sale della Fondazione Cineteca, azioni, performance. Di particolare interesse Time Blade~Liquid Hand, di MSHR, duo multimediale di Portland. Un’installazione/scultura/performance la cui piattaforma, ci viene spiegato, può ricordare la plancia di comando di un’astronave aliena. E un gradito ritorno, il live di Porter Ricks, sabato sera: progetto storico nato dalla collaborazione tra il compositore e sound artist tedesco Thomas Köner e l’ingegnere del suono e techno producer Andy Mellwig nel 1996.

E ancora molto altro. La ragazza con l’orecchino di perla ha annotato tutto quanto. E’ pronta a sgattaiolare dalla cornice. E noi? Ne usciremo vivi?