Un caccia dell’aviazione saudita ha colpito ieri una palazzina nella città yemenita di Qa’tabah, nella provincia centrale di Daleh, lungo la direttrice tra la capitale Sana’a e Aden, la strategica città meridionale che si affaccia sullo stretto di Bab al-Mandab: 16 civili uccisi, tra loro sette bambini e quattro donne, fanno sapere fonti mediche locali.

Sembra questa la risposta di Riyadh alla proposta di cessate il fuoco mossa dal movimento Ansar Allah, espressione politica dei ribelli Houthi, appena pochi giorni fa. Lo scorso venerdì la minoranza sciita, attraverso il suo ufficio politico, aveva promesso l’interruzione del lancio «di droni, missili e di tutte le altre armi contro il territorio saudita», in cambio del reciproco stop ai bombardamenti aerei contro il paese più povero del Golfo, da quasi cinque anni vittima della più grave crisi umanitaria del mondo (24 milioni di persone con bisogno immediato di aiuti umanitari).

La speranza Houthi, forse, era di capitalizzare la rivendicazione dell’attacco (via droni e missili) che il 14 settembre scorso aveva messo fuori uso una raffineria e un giacimento di greggio alla periferia della capitale Riyadh. Ma per la monarchia e il suo più stretto alleato, gli Stati uniti, il responsabile è l’Iran.

Già sabato scorso il ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir aveva reagito con estrema freddezza al cessate il fuoco proposto dai ribelli. Al contrario, ad accoglierlo con favore erano state Unione europea e Nazioni unite, che lo scorso dicembre in Svezia era riuscita ad archiviare la tregua per Hodeidah, città sulla costa ovest teatro dei più duri scontri dell’ultimo anno e principale via di ingresso degli aiuti umanitari internazionali.

La tregua, entrata in vigore solo mesi dopo, sembra reggere. Ma lo stesso continua a non valere per il resto del paese, stretto in mezzo al conflitto per procura tra Riyadh e Teheran.