È una storia tumultuosa e fluttuante durata 74 anni, con tutto il peso di un passato millenario di diplomazia, alleanze e conflitti tra stati del vecchio continente. Le relazioni tra la Gran Bretagna e il lungo percorso della costruzione europea, nel dopoguerra – ben prima che nascesse la Cee poi diventata Ue – sono fatte di reticenze e diffidenze, che Londra ha disegnato sullo sfondo dell’illusione di poter confermare lo “splendido isolamento” grazie alla forza dello “spirito del 1940”.

Una storia di un matrimonio di ragione giunta a una nuova svolta il 31 dicembre a mezzanotte, ora di Bruxelles, con l’uscita definitiva della Gran Bretagna dalla Ue, con un accordo per le relazioni future raggiunto in extremis, alla fine del periodo di transizione iniziato il 1° febbraio 2020, giorno in cui la Brexit è stata ormai senza ritorno. Il muro della preminenza degli interessi nei rapporti tra Londra e Bruxelles si è fratturato forse solo per un attimo, il 1° dicembre 1990, allora aveva fatto irruzione una ragione del cuore, un momento di grande emozione quando gli operai che scavavano il tunnel sotto la Manica, britannici e francesi, si sono incontrati per la prima volta.

Si trattò di un attimo di fratellanza che è stato presente anche alla cerimonia ufficiale di inaugurazione dell’opera che ha messo fine all’isolamento geografico dell’isola, il 6 maggio 1994, con il presidente francese François Mitterrand e la regina Elisabetta II.

La Ue non è (ancora?) gli Stati uniti d’Europa, eppure il primo a lanciare l’idea è stato un britannico, Winston Churchill, in un discorso a Zurigo il 19 settembre 1946 che riprende il sogno di Victor Hugo. «Il miglior modo per proteggere l’Europa», afferma, «se i paesi europei riuscissero a unirsi, i loro 300-400 milioni di abitanti, conoscerebbero una prosperità, una gloria, una felicità che nessun limite, nessuna frontiera limiterebbe». Ma c’è un dettaglio: per Churchill, gli Stati uniti d’Europa dovrebbero farsi senza la Gran Bretagna, paese all’incrocio di tre mondi, Atlantico, Commonwealth e Europa. Churchill, nel 1944, aveva detto a De Gaulle: «Ogni volta che dovremmo scegliere tra l’Europa e il grande largo, sceglieremo il grande largo».

Nel 1950, il primo passo della costruzione europea è la Ceca, la comunità del carbone e dell’acciaio, nata per rendere la guerra “impensabile” e “materialmente impossibile”, come ha detto Robert Schuman, uno dei padri dell’Europa. Vi aderiscono sei paesi (Francia, Germania, Benelux e Italia), che saranno i membri fondatori della Cee. Ma la Gran Bretagna rifiuta di partecipare: «Non possiamo cedere la nostra libertà di decisione e di azione a una qualsiasi autorità sovranazionale», dice il primo ministro laburista Clement Attlee nel 1951, parole a cui fanno eco i discorsi attuali del suo lontano successore, Boris Johnson (Attlee era preoccupato per il welfare e l’occupazione).

In quegli anni, addirittura, la Gran Bretagna si occupa di costruire un’alternativa alla Cee, fondata nel 1957, proponendo l’Efta (European Free Trade Association), che sarà costituita nel 1960, assieme a Norvegia, Svezia, Danimarca, Svizzera, Austria e Portogallo. Londra però non teme le contraddizioni e nel 1961 presenta la candidatura alla Cee.

Il primo ministro, Harold MacMillan, già pone delle condizioni, inaugurando la politica delle deroghe: non vuole entrare nella Pac, la politica agricola (perché la Gran Bretagna ottiene prodotti agricoli a basso prezzo dai paesi del Commonwealth). La Francia, che difende con forza la Pac, si oppone all’entrata della Gran Bretagna e per due volte, nel 1963 e nel 1967, blocca la candidatura di Londra, sospettosa della special relationship di Londra con gli Usa. Al massimo, De Gaulle propone un trattato di associazione, ma né la Gran Bretagna né gli altri 5 paesi membri della Cee accettano. Il veto francese finisce con l’uscita di scena di De Gaulle, dopo la confitta al referendum sulla riforma del Senato nel 1969.

Alla terza candidatura, la Gran Bretagna è accettata, e entra nella Cee nel 1973 assieme a Danimarca e Irlanda (la prevista entrata della Norvegia è bocciata dai cittadini con un referendum il 25 settembre 1972, con il 53,49% dei “no”). Nel 1971, a Westminster c’erano stati sei giorni consecutivi di dibattito per approvare l’adesione al Mercato comune, passata al Parlamento britannico con 356 voti a favore, 244 contrari e 22 astensioni. I cittadini confermeranno questa scelta con un referendum, nel giugno 1975, con 64,5% “sì” all’entrata nella Cee (nel frattempo, i francesi il 23 aprile 1972 avevano votato in un referendum al 67,7% a favore dell’allargamento).

La relazione con Bruxelles, sempre rugosa, diventa apertamente conflittuale negli undici anni di Margaret Thatcher. Eppure, la premier britannica si era adoperata per l’Atto unico, il mercato interno che fluidifica gli scambi, varato nel 1985 dalla Commissione presieduta da Jacques Delors, il suo nemico intimo. Ma prima, il 26 giugno 1984, Thatcher ha la sua vittoria, dopo una lunga battaglia contro l’asse Valéry Giscard d’Estaing-Helmut Schmidt prima e poi François Mitterrand-Helmut Kohl: con la famosa frase «I want my money back» pronunciata al Consiglio europeo di Dublino il 30 novembre 1979, la Gran Bretagna ottiene quello che chiede al vertice di Fontainebleau il 26 giugno 1984, il rebate, lo sconto sui versamenti a Bruxelles, considerati eccessivi (sconto che anche altri contributori netti otterranno, a cominciare da Olanda e Germania). Nel 1992, finita l’era Thatcher, il successore John Major ratifica il trattato di Maastricht, malgrado una forte opposizione nel suo campo Tory, ma chiede e ottiene una clausola di ritiro, l’opt out: la Gran Bretagna ha il diritto di rifiutare la moneta unica e la carta sociale europea.

È un capitolo della battaglia guidata da Londra per limitare la costruzione europea al solo campo della libertà di commercio, evitando scrupolosamente un’avventura di unità politica. La Gran Bretagna, per tre volte, nel 1994, nel 2004 e nel 2014, si oppone alla nomina di un presidente della Commissione troppo federalista: vince due volte, bloccando i belgi Jean-Luc Dehaene e Guy Verhofstadt, ma perde nel 2014 con il lussemburghese Jean-Claude Juncker, perché le regole sono cambiate, la nomina dipende ormai dal meccanismo dello Spitzenkandidat, Juncker è il candidato del Ppe, che è arrivato in testa alle elezioni europee e il Trattato di Lisbona decreta che i capi di stato e di governo devono «tener conto del risultato delle elezioni europee». I veti britannici non sono stati una buona cosa per la Ue: al posto di Dehaene nel 1994 viene scelto Jacques Santer, poi costretto alle dimissioni nel 1999 per cattiva gestione, mentre nel 2004 invece del federalista Verhofstadt arriva Manuel Barroso, che resterà due mandati (10 anni), che hanno segnato una perdita di potere politico e di prestigio della Commissione. Ma forse era quello che volevano i britannici, Tory o Labour. Il veto a Verhofstadt è di Tony Blair, anche se il premier laburista aveva ipotizzato, per un momento, persino l’adozione dell’euro e a quell’epoca Londra è attiva nei preparativi dell’allargamento della Ue all’est e al sud (nel 2004 entrano Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta e Cipro).

L’idea del referendum sulla Ue inizia a germogliare nel 2013. David Cameron, che si era opposto alla nomina di Juncker senza successo, promette il voto popolare, i Tories criticano la ratifica del Trattato di Lisbona fatta da Gordon Brown nel 2008, nel 2011 Londra rifiuta le modifiche ai Trattati che impongono una maggiore disciplina nei bilanci, mentre la City aborre il meccanismo di sorveglianza dei mercati finanziari. Nel 2015, il governo promette di rinegoziare un nuovo deal con la Ue. Bruxelles cede, il 19 febbraio 2016 c’è un accordo con Londra per limitare gli aiuti ai migranti della Ue e la Gran Bretagna si sfila dall’impegno di costruire «un’unione sempre più stretta» con i partner. Inizia la campagna per il referendum, i Tories si spaccano, Boris Johnson brexiter contro Cameron che propone senza entusiasmo il remain. Il 23 giugno 2016 le urne decretano la vittoria del leave al 51,89%, con grandi disparità tra territori. Cameron si dimette, arriva Theresa May, che attiva l’articolo 50 del Trattato di Lisbona. I negoziati vanno avanti per mesi, le deadlines per la Brexit non vengono rispettate: 19 marzo 2019, 12 aprile 2019, 31 ottobre 2019. Dimissioni di May, arriva Johnson. C’è un accordo il 17 ottobre 2019 sulla frontiera irlandese e la separazione, ma Westminster non lo approva. Johnson gioca d’azzardo, con elezioni anticipate il 12 dicembre che stravince: la nuova scadenza è il 31 gennaio 2020, è la Brexit, la Gran Bretagna esce dal mercato unico e dall’unione doganale, i cittadini britannici perdono il diritto di votare alle elezioni locali se residenti in un altro stato Ue. Il periodo di transizione, durato 11 mesi, è finito il 31 dicembre a mezzanotte. Poi ci saranno le relazioni future tra il blocco e la Gran Bretagna.