Dal Piemonte alla Puglia, da Palermo a Faenza, da Napoli a Padova ieri la mobilitazione del movimento di docenti, genitori e studenti «Priorità alla scuola» contro la didattica a distanza (Dad) e per la riapertura in presenza, in sicurezza e in continuità «dal nido all’università» ha raggiunto settanta città ed è stata sostenuta da uno sciopero dei Cobas e dal coordinamento nazionale dei precari scuola. E riprenderà, instancabile, mercoledì prossimo 31 marzo con lezioni in presenza, davanti agli ingressi degli istituti.

Questa lotta prosegue dall’inizio della pandemia un anno fa e chiede, mai realmente ascoltata, di stanziare immediatamente fondi per rendere meno numerose le classi, creare una medicina scolastica e un sistema di tracciamento, stabilizzare i precari (un quarto del personale complessivo). Sul «Recovery fund»chiede di cambiare impostazione sia sulla scelta di aziendalizzare l’istruzione sia sulla distribuzione dei fondi a tutta l’istruzione. E, ogni anno, bisognerebbe finanziarla con il 5% del Pil.

A sostegno della protesta fino a ieri erano arrivate oltre cinquemila mail da parte di genitori che hanno autocertificato lo sciopero dalla Dad dei figli iscritti a tutte le scuole. Una prima prova per uno strumento ingegnoso che può crescere.

Nella guerra dei Tar che supplisce al colpo inflitto alla costituzione e al diritto all’istruzione si aggiunta una nuova sentenza significativa. Il tribunale amministrativo del Lazio ieri ha accolto il ricorso per la riapertura delle scuole, presentato da «Ri(n)corriamo la scuola» di Firenze e ha disposto che, entro due giorni, il Consiglio dei Ministri dovrà riesaminare le misure sulla scuola contenute nell’ultimo «Dpcm» di Draghi alla luce degli studi scientifici citati dai ricorrenti.

Un modo per dimostrare che, al momento e comunque dopo 12 mesi, non esiste in Italia un sistema pubblico capace di rilevare i dati dei contagi nelle scuole e stabilire quanti avvengono dentro e quanti fuori. Su questa assenza è stata costruita tutta la «politica» delle aperture e chiusure delle scuole che hanno portato l’Italia a raggiungere il triste record del paese che ha fatto meno giorni di scuola in presenza in tutta Europa: 29 settimane in meno in media.

La conferma della volontà del governo di una riapertura delle scuole fino alla prima media anche nelle zone rosse il 7 aprile è considerata «una vittoria parziale ma importante per genitori, insegnanti e studenti perché dovrebbero riportare a scuola migliaia di bambini delle scuole primarie e della prima media. Eppure si tratta anche dell’ennesimo duro colpo al diritto all’istruzione per i ragazzi dalla seconda media in avanti e, in particolare, per gli studenti che hanno tra i 14 e i 18 anni. La classe politica italiana è concentrata solo a far funzionare le attività che producono reddito, mentre tiene chiuse le scuole, bene primario per garantire la salute dei bambini e dei ragazzi».