Il gruppo libanese Mashrou’ Leila nei giorni scorsi ha portato per la prima volta in Italia, ospite a Firenze del festival Middle East Now e Oxfam, la sua musica e la sua energia. Una ventata d’aria fresca e di gioia di vivere, un’atmosfera coinvolgente e testi che affrontano – in arabo – delicati temi sociali e politici. Il cantante del gruppo, Hamed Sinno, che ha dichiarato apertamente la sua omosessualità, nei testi racconta anche senza ipocrisie o giri di parole di amori gay. Il suo coming out non è affatto scontato in un paese come il Libano, che pur essendo più tollerante di altri in quell’area geografica, ancora considera l’amore verso il proprio sesso una pratica contro natura.

La musica è il risultato di contaminazioni jazz, rock, elettroniche, classiche e pop. La band, fra le più apprezzate in tutto il Medio Oriente e il nord Africa, alterna brani in cui il violino riecheggia tradizioni balcaniche e zigane ad altri in cui la voce del leader sostituisce al microfono un megafono, quasi a rievocare le manifestazioni di piazza di tanti paesi della regione protagonisti di un risveglio sociale e politico con risvolti molto drammatici. Abbiamo incontrato i Mashrou’ Leila a Firenze.

Perché avete scelto di scrivere i testi in arabo?

È stata una sfida. Tutta la musica che sentivamo era in inglese e francese, non avevamo modo di confrontarci con prodotti musicali nella nostra lingua. Questo era un grande limite per una cultura con cui identificarsi, non c’era nulla che non fosse importato. Continuiamo a farlo, anche se questo ci esclude dalla cultura dominante.

Le vostre sonorità sono una fusione di generi molto diversi…

Scriviamo e componiamo nell’unico modo che ci piace, amiamo certe sonorità, ma non c’è l’intenzione di mescolare i suoni. Consumiamo quantità enormi di musica, abbiamo gusti molto diversi. La scena musicale nel paese è molto frammentata, ce n’è una più popolare veicolata da programmi tv, festival, radio, e una indipendente. È difficile avere visibilità, i media non si occupano di musica underground perché non rientra nel mercato. Negli ultimi tre anni le cose sono migliorate, forse anche perché gli occhi del mondo sono puntati sul Medio Oriente per le primavere arabe, sugli artisti e i prodotti culturali provenienti da una parte travagliata del mondo. Siamo programmati più in Europa che in Libano, dove i nostri pezzi in arabo non interessano alle emittenti commerciali e quelle che trasmettono in lingua mandano in onda quasi esclusivamente brani tradizionali.

Quindi la rete è determinante per raggiungere il vostro pubblico.

Sì, il nostro pubblico ci segue ai concerti e sulla rete. Tutto sta crescendo grazie ai social media, anche noi. È l’unico modo per bypassare la grande industria che controlla stampa, radio e televisioni. Sei anni fa, quando abbiamo cominciato, non era chiaro cosa fosse facebook, lo si usava per connettersi e veicolare messaggi… Ma in situazioni di crisi ed emergenza, come in Egitto e Siria, i social media sono diventati il solo mezzo per mandare messaggi fuori, mentre tutto il resto è controllato dalla polizia.

Nei testi vi occupate di temi sociali e politici. Spesso durante i concerti raccogliete fondi per alcuni progetti, come a Firenze per la Siria. La vostra è una musica politicamente impegnata?

Sul palco siamo le stesse persone che siamo fuori, sosteniamo le stesse cause che ci coinvolgono nella vita di tutti i giorni. Non facciamo concerti di beneficienza per questioni di facciata, certi temi sono importanti anche nel nostro privato. E il nostro impegno entra spesso nei brani, ognuno di noi cerca di fare ciò che può per aiutare a migliorare le cose nel paese. Ma la nostra musica nasce da ciò che sentiamo e ci accade attorno. Parliamo anche di sesso, amore, famiglia, religione. Quando abbiamo realizzato che il gruppo stava diventando abbastanza influente ne abbiamo approfittato per sostenere cause a noi care. Ma prima di tutto ci interessa la musica, non abbiamo la presunzione di suonare pensando di risolvere i conflitti del Medio Oriente, anche se sappiamo che la musica ha un potere molto forte: quello di far identificare le persone e farle sentire parte di qualcosa. Sarebbe disonesto stilare un elenco di tutte le cause che meritano attenzione per poi scrivere delle canzoni ad hoc. Quando quello che senti lo metti in un lavoro acquista uno status, non lo si può più ignorare. Ciò di cui parliamo è quello di cui parla la gente, ma così assume una certa ufficialità, anche per chi non vuole esporsi su alcuni temi, ma li pratica tutti i giorni. Tutti i prodotti culturali sono politici, anche semplicemente parlare è il risultato di ciò che germoglia dalla società. Soprattutto in Medio Oriente, dove ogni cosa diventa politica, anche fare musica pop. Quando abbiamo cominciato avevamo vent’anni e molta paura per come potevano essere accolte le nostre canzoni. Ad esempio non avrei mai pensato di affrontare la questione della mia omosessualità, ma le reazioni non sono state negative e questo non è mai stato di ostacolo per il gruppo.

Ti va di entrare nel merito delle tematiche lgbt trattate dai vostri pezzi?

Preferisco di no. Anche questi temi sono il frutto di tutto ciò che ci sta intorno e respiriamo quotidianamente. La produzione culturale e la società in Medio Oriente vivono una fase particolare. C’è un grande impegno che riguarda riforme politiche e sociali in cui chiunque è coinvolto. Noi respiriamo tutto questo, le canzoni sono frutto della sensibilità che ci ruota intorno. Ognuno di noi ha un background diverso: siamo cristiani, musulmani, gay, etero. Ora in tutta l’area c’è una maggiore attenzione verso le istanze dei giovani e la loro cultura, frutto della consapevolezza che i cambiamenti stanno avvenendo grazie al loro contributo. Scrivere di cose che riguardano la vita di tutti i giorni è il prodotto diretto o indiretto della situazione politica e di una sensibilità sociale. Esprimersi attraverso la musica è in un certo senso una maniera politica per resistere in cui la gente può identificarsi. Una canzone che racconta di due ragazzi che vogliono sposarsi, ma non possono perché appartengono a religioni diverse, pone l’attenzione sulla situazione del paese. La società è fatta della vita quotidiana della gente comune.

Definireste la vostra musica come una forma di resistenza e di attivismo?

No, sarebbe troppo, siamo solo sensibili verso alcune tematiche. Il Medio Oriente vive una fase storica particolare, la nostra cultura ha il dovere di ricoprire un ruolo di impegno. Tutti i giorni viviamo conflitti, forse in questo senso si può oparlare di resistenza. Noi abbracciamo alcune cause, ma non è questo il motivo per cui scriviamo musica. Con il primo album volevamo cambiare il mondo, ma quello che più ci piace è la bellezza del suono, chiuderci in studio a registrare. Il nostro lavoro è la musica! Per noi è fantastico stare sul palco, se è per una buona causa ancora meglio.

Qualcuno vi ha definito il gruppo musicale delle primavere arabe. Vi riconoscete?

Non abbiamo mai avuto l’intenzione di rappresentare niente di tutto questo, si è trattato di una “coincidenza”. Finora gli obiettivi delle rivoluzioni non sono stati raggiunti, ma ci sono elementi positivi. Sono processi che impiegano anni per compiersi pienamente. Tunisi è un buon esempio: ci sono stati incredibili cambiamenti nella Costituzione in merito al ruolo delle donne. È l’esempio più di successo di tutta l’area. La Siria è il caso più drammatico, ma anche se i siriani vivono da rifugiati in condizioni orribili, sono ancora ottimisti. Chiunque in Medio Oriente è consapevole del cambiamento e aspetta che si compia. Ce ne sono stati già nelle leggi, non so se è merito delle cosiddette primavere arabe, ma su temi che riguardano il genere, i diritti delle donne e la sessualità c’è maggiore interesse. Anche se la strada da fare è ancora molto lunga. Le dinamiche politiche a Beirut sono molto diverse rispetto ai paesi in cui sono in atto le rivoluzioni, la città rappresenta un caso particolare. L’Egitto ad esempio si è sempre contraddistinto per un sistema di autorità centrale, il Libano invece è sempre stato esattamente l’opposto, abbiamo tanti sistemi diversi. Questo permette una certa libertà. Ciò che più affligge il Libano sono le questioni sociali. Essere liberali nelle questioni che riguardano la sessualità e il genere, ad esempio. Il clima del paese favorevole alla produzione culturale è il risultato dei tempi in cui la città era meta preferita di artisti e intellettuali provenienti da tutto il Medio Oriente. Beirut era abbastanza liberale e la causa palestinese è sempre stata molto forte. Poi però alle diverse guerre non sono seguite vere riforme.

Cosa vi contraddistingue da altri gruppi per avervi fatto conquistare così tanto consenso?

L’onestà in tutto quello che facciamo. Scriviamo musica e la interpretiamo nell’unico modo in cui sappiamo farlo. Non usiamo coreografie, costumi, luci particolari, le nostre performance sono sincere.