L’audizione del ministro di giustizia Jeff Sessions davanti alla commissione di intelligence del Senato è stata controversa; il ministro ha respinto con indignazione la dichiarazione per cui lui avrebbe saputo e fatto parte del Russiagate, e ha ripetutamente rifiutato di parlare delle conversazioni avute con Donald Trump.

Oltre a questo è stato spesso colto da vuoti di memoria, affermando di non ricordare episodi del suo recente passato in cui la sua strada avrebbe a incrociato quella di Sergei Kislyak, l’ambasciatore russo a Washington.

A quanto dichiarato da Sessions, il 12 aprile 2016 al Myflower hotel, quando il candidato Trump teneva un discorso a cui aveva assistito anche Kislyak, come mostrano i filmati, non era al corrente della presenza dell’ambasciatore che avrebbe scoperto solo in seguito.

SESSIONS È ANDATO OLTRE affermando che «Durante la campagna elettorale non ho mai sentito neanche una voce su possibili interferenze nelle nostre elezioni da parte dei russi». Probabilmente toccherà al procuratore speciale Robert Mueller stabilire se davvero ci sono stati questi rapporti tra il Cremlino e lo staff di Trump e in che modo vi è coinvolto Sessions, ma già circolano voci di un possibile licenziamento di Mueller; martedì la Casa bianca ha dichiarato che, anche se il presidente «ha ogni diritto» di licenziarlo, «al momento non ha intenzione di farlo», ma c’è sempre tempo.

SUI RAPPORTI DIFFICILI tra Comey e la Casa bianca, Sessions ha fatto risposto con una motivazione debole, sia logicamente che giuridicamente, dicendo: «Non sono nelle condizioni di rispondere: devo proteggere le conversazioni private con il presidente»; una risposta che ha fatto scuotere molte teste, e durante l’udienza il senatore democratico Martin Heinrich ha ricordato spazientito al ministro: «Lei ha giurato di dire tutta la verità, ma non sta rispondendo a questa Commissione». Queste udienze stanno mettendo in luce non solo gli interrogati ma anche chi li interroga, come il senatore della California, Kamala Harris, che più di tutti ha incalzato Sessions, quando il ministro adduceva come scusa per non riapondere «alcuni vincoli giudiziari» che, quando Harris gli ha chiesto di nominare, non ha saputo elencare, dando vita al momento più imbarazzante di tutta l’udienza. Mentre i riflettori erano puntati sulla commissione di intelligence, Trump non stava con le mani in mano e proprio in quelle ore ha conferito al generale Jim Mattis, detto «Cane Pazzo», attuale segretario alla Difesa, l’autorità necessaria per gestire le truppe in Afghanistan, dove il commander in chief, ora, non è più il presidente.

«NON STIAMO VINCENDO, i talebani avanzano in Afghanistan – ha detto Mattis davanti alla commissione Forze Armate del Senato – Correggeremo questa situazione al più presto, i talebani hanno avuto un buon anno e in questo momento penso che il nemico stia avanzando». Gli Stati uniti stanno quindi valutando come nuova strategia vincente la possibilità di inviare alcune migliaia di soldati in più in Afghanistan.

Non è immediatamente chiaro come la decisione influirà sui livelli dell’esercito, della Casa bianca e del Pentagono che non hanno ufficialmente commentato le dichiarazioni di Mattis, che però ha il potere e i mezzi decisionali. La mossa è un «allontanamento molto deciso dalle politiche di Obama», ha dichiarato una fonte vicina al segretario della Difesa. Già nel mese di febbraio, il generale Mattis aveva dichiarato al congresso che sarebbero state necessarie migliaia di elementi nella zona, in modo da uscire dall’attuale «stallo».

Questi elementi adesso potrà averli a disposizione senza domandare il permesso a nessuno, altri «stivali sul suolo», quindi.