Mentre si attende a giorni la celebrazione di un altro incombente anniversario, i cento anni dalla Rivoluzione d’ottobre, il cinquantenario dal Sessantotto già si profila all’orizzonte con la perentorietà degli appuntamenti obbligati e delle domande inevitabili. L’annus mirabilis come matrice di ciò che siamo diventati? Come ormai lontana origine dei nostri abbagli? O come esempio da ritrovare nel presente di una spinta radicale che riuscì a scompaginare tutti i campi della produzione culturale e dell’esistenza sociale imponendo la loro incessante «criticabilità»? E se anche sapessimo rispondere, in quali forme poi mostrare tutto questo?

I Soulèvements di Didi

Due mi sembra siano le soluzioni possibili. La prima è quella, visionaria ed enciclopedica, di cui nell’autunno del 2016 ha dato copiosa testimonianza la mostra di Georges Didi-Huberman Soulèvements al Jeu de Paume a Parigi: un vorticoso montaggio di immagini, opere e documenti, in cui si cercava di disegnare un atlante morfologico dei gesti di rivolta, dei «sollevamenti» appunto, che finiva però per cadere vittima di una visione sentimentale e paradossalmente depoliticizzata degli stessi. La seconda soluzione è al contrario ristretta, distaccata, contestuale, come quella messa in pratica dalla mostra è solo un inizio. 1968, a cura di Ester Coen (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, fino al 14 gennaio): misurare uno «stato all’arte» sincronico al Sessantotto, respingendo la tentazione a ridurre le opere a meri sintomi o a diluirle nel flusso indifferenziato della cultura visiva dell’epoca.

Come rendere conto dunque della indispensabile eppure problematica asincronia tra i ritmi della creazione e gli eventi, i discorsi, i fatti di quel tempo irripetibile? Anziché ricorrere, come sarebbe stato prevedibile, al rassicurante supporto della documentazione storica, alle virtù terapeutiche dell’archivio, la curatrice ha optato per una soluzione più rischiosa, riducendo l’esposizione ai dati essenziali dal punto di vista artistico, un compatto nucleo di circa quaranta opere in massima parte di artisti italiani, col solo accompagnamento di un’esile pubblicazione (a cura di Ilaria Bussoni e Nicolas Martino, Electa, pp. 36, euro 5,00).

Questa scelta, per molti versi controcorrente rispetto alla diffusa preferenza per ampie esposizioni tematiche dal ricco apparato storico-documentario, riflette almeno a prima vista la tonalità generale dell’attuale, controverso allestimento della Galleria nazionale inaugurato giusto un anno fa, Time is out of joint, in cui opere di collezione e prestiti compongono un mosaico agli antipodi del vecchio e polveroso ordinamento storico ma sin troppo fiduciosamente affidato a superficiali corrispondenze tematiche o formali.

Alla base dell’operazione di Ester Coen mi sembra però di poter leggere un’intenzione assai diversa, il non facile tentativo cioè di restituire, prima ancora di ogni sistemazione filologica, anzitutto la percezione immediata della proteiforme energia sperimentale dell’arte degli anni cruciali intorno al ’68, della sua capacità di infrangere recinti linguistici e abitudini percettive, di abolire gerarchie e distinzioni espressive.

Un intento esplicitamente dichiarato nel trattamento dello spazio di esposizione – il grande salone centrale del museo e gli ambienti adiacenti –, lasciato privo di percorsi e supporti esplicativi (col rischio di una oggettiva difficoltà di lettura per il pubblico) e utilizzato come una piattaforma neutra e aperta, su cui opere spesso dissonanti per tecniche, materiali, poetiche, convivono in un continuum spaziale e concettuale che ha diretti precedenti negli allestimenti delle rassegne che tra il ’68 e gli anni immediatamente successivi segnano il passaggio a una nuova, intensissima stagione sperimentale, da Arte Povera + Azioni Povere, curata da Germano Celant in collaborazione con Marcello Rumma negli antichi Arsenali di Amalfi (1968), alla paradigmatica Live in Your Head. When Attitudes Become Form, allestita da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969.

In questi casi e numerosi altri dello stesso periodo ciò che emergeva era in effetti una decisa decostruzione dello spazio espositivo, con l’abrogazione di ogni tradizionale partizione formale a favore di una presentazione aperta, orizzontale, che facilitava il dialogo fra ambiente e opere e tra queste ultime e il pubblico.

Questa nuova impostazione, che rifletteva d’altro canto la volontà degli artisti di assumere il controllo delle modalità di esposizione, era condizione essenziale per pratiche creative dalla natura metamorfica, «processuale», fenomenologica, esplicitamente opposte a ogni cristallizzazione formale o ideologica.

Assalto al modernismo

Le ricerche che tra Europa e America si diffondono alla fine dei Sessanta – solitamente rubricate sotto le etichette di post-minimalimo, di anti-form, di arte povera, concettuale o comportamentale – si presentano in effetti non solo come vittoriosi assalti alla presunta compattezza della narrazione modernista e formalista, al suo inflessibile appello alla specificità di segni, materiali, tecniche, ma anche come una rivendicazione di per sé politica che guardava alla ricomposizione della cesura arte-vita e alla possibilità di allineare le pratiche dell’arte a più ampi processi di trasformazione del mondo reale come a un orizzonte agibile e vitale per ogni operazione artistica.

La deflagrazione di media e tradizioni espressive e l’avvento di un’arte risolta in «situazioni» e in processi di pensiero, nell’immateriale, nel performativo, può essere misurata in tutti i lavori esposti, da quelli di Marisa Merz, Luciano Fabro, Emilio Prini, Eva Hesse, Luigi Ontani, Richard Long, ad esempio, all’ironica «scultura che mangia» (1968) di Giovanni Anselmo, due blocchi di granito tra cui è inserito un cespo di lattuga fresca, alla «carboniera» (1967) di Jannis Kounellis, con il suo contrasto tra la complessa stereometria del recipiente metallico e l’informe, sfaccettata potenza del carbone, al vertiginoso Autoritratto di Giulio Paolini come Nicolas Poussin (1968), sino al fragile, straordinario Acqua scivola (Igloo di vetro) di Mario Merz (1969), una delle opere più emblematiche della mostra, con le sue lastre di vetro precariamente saldate con mastice da vetraio il cui odore penetrante è forse una delle presenze più inattese e rivelatrici di tutta la mostra.

Contro la pedagogia

C’è nella scelta di riunire una simile antologia di figure ormai canoniche della storia dell’arte recente, un limite implicito: quello di offrire una visione istituzionalizzata e artificialmente conciliata, senza tempo, di una stagione altrimenti conflittuale e tuttora oggetto di controversia. È una conseguenza in effetti che la mostra non combatte e anzi rivendica come propria cifra specifica, e in cui si legge in filigrana lo scetticismo per ogni pedagogia espositiva che occulti sotto una sovrabbondanza di informazioni la capacità delle opere di resistere ai tentativi di assimilarle a un unico, asfittico spazio-tempo.

Resta la sensazione che la ricerca di una modalità rispettosa della sostanziale natura anacronica dell’esperienza artistica, della sua capacità cioè di farsi punto di confluenza di flussi temporali non riducibili al suo momento cronologico, non possa fare a meno di prendere in carico proprio quanto nel caotico «spazio del presente» del ’68 rimaneva necessariamente fuori dal mondo dell’arte e la cui elisione finisce per privarci della possibilità di rileggere quella stagione con la radicalità che essa esigeva per il proprio tempo