Il talk non è in crisi, non è morto, è «insopprimibile». Nell’anno degli ascolti in picchiata per tutti, Michele Santoro, maestro del genere, confuta l’analisi prevalente, «un falso teorico». In crisi, dice, è «questo modello di talk», stressato all’inverosimile e «arrivato al punto di saturazione», con fotocopie delle fotocopie, ospiti che sono sempre gli stessi anche perché l’attuale classe politica non offre granché, programmi messi in concorrenza tra loro, grave errore, dice il conduttore, e serate interminabili. E qui Santoro individua un nodo centrale, segnalato all’editore di La 7 Urbano Cairo, per ora senza risultati. Cancellare la seconda serata – spiega – perché la prima viene dilatata fino a mezzanotte per ottenere un risultato sicuro risparmiando (Cairo sarebbe un ottimo commissario alla spending review, ironizza Santoro), significa rinunciare a una fascia da sempre territorio privilegiato della sperimentazione. Insomma, «la crisi è del sistema televisivo italiano», che non innova e non spende. E poiché Santoro, dopo 30 anni, ha voglia di innovare, proverà appunto a inventare qualcos’altro, «progetti nel cassetto ne ho tanti», ma «Servizio pubblico» chiude. Se Cairo sarà interessato, bene, ma «metto le mie idee anche disposizione di Rai e Sky» (dal Pd Michele Anzaldi si appella ai direttori Rai perché si facciano avanti).

Per l’ultima puntata, il 18 giugno dopo un nuovo ciclo di Announo di Giulia Innocenzi (dal 21 maggio, ospiti fissi Antonio Di Pietro e Alba Parietti), Santoro torna fisicamente in piazza. Rievocando l’esperienza di «Tutti in piedi» (e di «Rai per una notte»). Andrà in onda da Firenze, per partecipare bisognerà «indossare qualcosa di rosso, che può essere quello del garofano socialista o di Landini». Un «richiamo al bipolarismo» contro «i partiti della nazione». E se Renzi «vuole dimostrare che il paese cambia, provi a cambiare la Rai: l’unico prezzo per lui è rinunciare al controllo sulla tv di Stato». (mi. b.)