La fabbrica delle ideologie, come coscienza falsa, è pronta a riaprire. E quindi già si ripresentano in parlamento i soliti progetti per il passaggio al presidenzialismo. Anche una nuova legge elettorale (la sesta) è invocata per risolvere il male della ingovernabilità. Insomma: la solita retorica sulla riforma delle istituzioni, come pozione salvifica, che dura da trent’anni.
Un accanimento così testardo postula che il voto di marzo sia stato un incidente, risolvibile solo con altre prove tecniche di semplificazione.

Gli elettori, che non hanno visto il bene supremo del vincitore incoronato a urne chiuse, vanno invitati a ripetere le operazioni di voto. Tocca però prima al grande riformatore sciogliere il nodo. Il parlamento è, per colpa esclusiva della legge elettorale, in una situazione di stallo. E, per uscirne, altro rimedio non esiste all’infuori di quello che prevede la scrittura di una nuova formula per ripetere le elezioni evitando, con fantasiosi accorgimenti tecnici, che il popolo ancora sbagli.

Questa pretesa di correggere, con alchimie strane, la volontà popolare insensibile è assurda. Anche con il meccanismo elettorale più selettivo, all’inglese, che viene celebrato dagli apprendisti stregoni come garanzia di governabilità, a marzo avrebbe consegnato una situazione di perfetto equilibrio. Le tre forze hanno infatti riportato, anche nei 231 collegi uninominali, una quantità di voti che esclude una loro traduzione in seggi tale da regalare il nome del vincitore al calar della sera. Proprio come accaduto nella quota proporzionale con le liste bloccate, anche nei collegi uninominali all’inglese si conteggiano 111 seggi per la destra, 93 per il M5S, e 28 per il centro sinistra. Nessuno dei tre poli ha raggiunto la maggioranza assoluta.

Il difetto dell’attuale sistema misto non è certo quello di aver mancato di santificare il vincitore (peraltro non lo ha espresso per un soffio, e se solo la Sicilia avesse confermato il voto delle regionali di qualche mese prima, la destra sarebbe andata vicina alla conquista della maggioranza assoluta). Il deficit della normativa vigente riguarda la lista bloccata, l’assenza del voto disgiunto. Il nome del capo politico eletto rientra invece in una aspettativa illusoria collegata alla nefasta cultura della democrazia «immediata», che danni immensi ha già prodotto nella struttura della forma di governo.

Quale che sia la tecnica elettorale, in nessun sistema parlamentare, anche quello che prevede il doppio turno o il maggioritario secco di tipo anglosassone, con il voto si elegge il governo. In presenza di tre poli incomunicanti, la responsabilità delle scelte, per superare la paralisi, non ricade su pretesi vincoli dettati dalla legge elettorale, ma solo sulla testa della leadership politica. Il Pd, che rifiuta contrattazioni con il M5S e invoca il doppio turno (come terza forza sarebbe residuale ancora più di adesso), vuole semplicemente che ciò che ai parlamentari è precluso, l’intesa con altre forze, piombi sulle mani degli elettori, costretti a compiere scelte costose riversando i voti sul meno peggio che accede al secondo turno.

Il parlamento è il naturale luogo dei compromessi, alla luce dei rapporti di forza. Il Pd non può che prendere atto della situazione per cui un governo (uno qualsiasi, anche quello di tregua, di scopo, di garanzia, ponte) va concordato con uno dei due vincitori. Lega e M5S hanno avuto una forza parlamentare per cui, senza il sostegno in aula di uno dei gruppi, non si fa maggioranza. E quindi tocca al Pd valutare chi, tra i due vincitori, è più compatibile per siglare una intesa programmatica minima che operi nel solco di essenziali valori costituzionali.

La proclamazione di una destinazione naturale all’opposizione, perché tocca solo ai due più grandi partiti vedersela tra loro (avrebbero stretto l’alleanza senza l’incomodo Berlusconi!), rasenta l’irresponsabilità istituzionale. Nel 2013 non fu così, il Pd cercò allora un governo di larghe intese con Fi, vista la indisponibilità del M5S a un governo del cambiamento. La questione non è di ordine di classificazione dei partiti al voto, ma è politica.

Consentire un governo, anche senza parteciparvi in maniera organica, è una prova di lealtà costituzionale cui il Pd non può sottrarsi. E il trucco di governi pseudo-tecnico-istituzionali (con Cassese?) concordati dai renziani con la destra avrebbe conseguenze catastrofiche. Al timore di una marginalizzazione, che certo potrebbe scaturire da un dialogo con il M5S, il Pd non può di sicuro rispondere con un arroccamento che consegnerebbe proprio al duello tra Di Maio e Salvini le condizioni per il consolidamento del nuovo bipolarismo.