Quella che si apre sarà una settimana di fuoco per la manovra. Alle 15 di domani scadono i termini per presentare gli emendamenti in commissione bilancio al Senato, prima dell’approdo del testo in aula previsto per il 3 dicembre. Lo stesso giorno iniziano le votazioni sul decreto fiscale alla Camera. Il premier Conte invita tutti a far prevalere «lo spirito di squadra», ma il clima è quello della guerra di tutti contro tutti dentro la maggioranza. Guerra di emendamenti e guerra di propaganda. Tassa sulla plastica, auto aziendali, Quota 100, Industria 4.0, cuneo fiscale, carcere agli evasori: tutto ritorna in discussione. Solo dai ministeri è in arrivo una batteria di oltre 200 emendamenti.

Il più scatenato di tutti è Matteo Renzi, che non solo vuole cancellare alcune norme della manovra che sta per affrontare le aule parlamentari (presenterà un emendamento contro Quota 100), ma annuncia, addirittura, che girerà l’Italia per proporne, sostanzialmente, un’altra. «Un piano shock da 120 miliardi», che assomiglia molto ad un altro piano shock, quello dell’altro Matteo: più cantieri, meno lacci e lacciuoli, meno tasse per tutti. Roba vecchia.

La riproposizione di misure anti-burocrazia già sperimentate – e fallite – con lo «Sblocca Italia» del 2014 e un triste ritornello thatcheriano che rievoca i «favolosi» anni Ottanta.
Intanto, il Paese boccheggia. Inflazione che tende allo zero, crescita che fa altrettanto. Ultimi in un’Europa che paga il prezzo delle politiche di austerità di questi anni. C’è una gigantesca questione sociale in Italia: chi non lavora è povero, chi lavora è povero lo stesso. E sia i primi che i secondi pagano in proporzione più tasse dei ricchi (pesa molto anche la tassazione locale).

I numeri sull’indigenza rimangono da capogiro. Un italiano su dieci, addirittura, non può mangiare a sufficienza (non parliamo dell’accesso alle cure). Una condizione che riguarda anche chi lavora. Stando ad Eurostat, l’Italia è il terzo Paese europeo, insieme alla Grecia, per numero di lavoratori poveri o a rischio povertà (il 16% sono contratti precari, circa 3 milioni). Prima di noi, ma non molto distanti, soltanto Spagna e Romania.

Altri numeri. L’ultimo Rapporto annuale dell’Inps dice che in Italia il 28% dei rapporti di lavoro (4,3 milioni) prevedono una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi, ben al di sotto delle soglie minime. E che questa condizione riguarda il 25,9% dei dipendenti privati, il 39% degli operai agricoli (gli irregolari non sono conteggiati) e il 69,7% dei lavoratori domestici.

Salari giù, profitti e super-stipendi su. Dal 1978 ad oggi, mentre il tasso di crescita dei redditi della fascia più bassa della popolazione è stato del 65%, quello dello 0,01% più ricco è stato del 300%. Un deciso cambio di passo tra chi sta sopra e chi sta sotto. Con la crisi che ha fatto il resto. Ma non dappertutto allo stesso modo. E’ acclarato che l’impatto sul Mezzogiorno della crisi globale sia stato più devastante rispetto al Centro-Nord, sia in termini di Pil, che di crescita della disoccupazione e di ampliamento delle sacche di povertà. E che alcune regioni centrali, un tempo incubatrici di nuovi modelli di sviluppo, stiano subendo da alcuni anni una sorta di «meridionalizzazione» della propria economia, con interi comparti produttivi, per lo più imperniati sulla piccole e media impresa, in grande affanno, se non proprio allo sbaraglio.

Tira ancora un po’, con qualche acciacco, l’economia dell’export agganciata alla manifattura tedesca, ma per quanto tempo ancora? I segnali che vengono dalla Germania sono tutt’altro che incoraggianti e la forsennata guerra commerciale innescata da Trump rischia di portare il mondo verso una nuova, grave, crisi mondiale. Gli ingredienti ci sono tutti: crescita bassa e borse alle stelle. Il mix ideale per un nuovo tsunami economico-finanziario. C’entrano qualcosa la povertà e le disuguaglianze con la situazione economica che stiamo vivendo? Certamente. Con stipendi da fame, lavoretti e disoccupazione elevata l’economia ristagna. Senza reddito non c’è spesa, senza spesa non c’è reddito.

Ecco, tra le «manovre» dei vari gruppi di governo, si è persa l’unica manovra che servirebbe oggi all’Italia: una manovra riparatrice verso i ceti che maggiormente hanno pagato il prezzo della crisi, giusta ed espansiva per rilanciare davvero l’economia.