È certamente un buon segno che la riunione informale dei ministri per gli affari europei, incentrata sul funzionamento dell’Ue dopo le elezioni del 25 maggio, abbia aperto le porte al Parlamento europeo, e soprattutto alla Commissione affari costituzionali, giacché è proprio nell’assenza di una vera costituzione europea – tuttora latitante, a cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e della Carta dei diritti – che si riassume l’essenza della crisi che attraversiamo.

La timida apertura all’unione politica, contenuta nel rapporto stilato nel 2012 dai «quattro presidenti» – Commissione, Bce, Consiglio europeo ed Eurogruppo (il Parlamento fu malauguratamente escluso) – pare già evaporata, e i mali dell’Ue continuano immutati, a cominciare dalla teoria delle «case nazionali» da mettere in ordine prima di rifondare l’Europa nel senso solidale chiesto dai cittadini.

Impressionante è la sottovalutazione del messaggio venuto dalle ultime elezioni europee, mai sottoposto a una seria analisi autocritica. Il giudizio fu evasivo già nella risoluzione del Consiglio europeo di giugno, quando si parlò di crescente «disincanto», una parola che significa tutto e niente. Appena due mesi son passati, e i disincantati vengono oggi bollati come populisti e estremisti. I due aggettivi sono abusivamente proposti come sinonimi, refrattari a ogni distinguo fra eurocritici ed euro-ostili, ignari di quel che chiede la maggioranza dei cittadini: non meno Europa, ma un’Europa più democratica, più solidale, più giusta socialmente.

Speravo in un semestre italiano capace di imprimere una svolta in questo campo. Dopo la crisi governativa in Francia e le ammissioni del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan («Abbiamo sbagliato tutti sulle previsioni di crescita», ha detto il 17 agosto alla Bbc), è necessario riconoscere che, per quanto riguarda l’austerità, non bastano parametri un po’ più flessibili. Occorre un cambio radicale di paradigma, se è vero che sono le idee di fondo sull’austerità, fossilizzatesi ormai in ideologia, ad aver prodotto questi sbagli.

Chiunque prenda sul serio il malessere dilagante in Europa non può non comprendere che è venuta l’ora di far partecipare i cittadini al governo della crisi (lo prescrive, tra l’altro, l’art. 11 del Trattato di Lisbona). Non ci si può limitare a rendere le istituzioni più celeri, né si può minacciare tagli a programmi come Erasmus, sollevando le giuste proteste di tanti giovani. Abbiamo di fronte problemi gravi con cui confrontarci, che richiedono trasparenza e democrazia, a cominciare dalle trattative sul partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). La presidenza italiana chiede, giustamente, che sia declassificato il mandato negoziale della Commissione, ma non basta: il Parlamento europeo –i cittadini, ancora una volta – deve avere accesso a tutti documenti nelle varie fasi del negoziato. Non può essere messo al corrente a trattato concluso, quando gli verrà chiesto di dare il cosiddetto parere conforme.

Preoccupa l’insidioso ritorno dei nazionalismi e delle intese intergovernative. Ai mali di una Commissione prigioniera della tensione e dello squilibrio creatosi fra Stati più o meno potenti dell’Unione, alla sfiducia degli elettori, si risponde creando nuove burocrazie, non europee, ma nazionali. Parimenti, si invita a non approfondire l’integrazione: l’Unione «dovrebbe astenersi dall’intervenire quando gli Stati membri possono raggiungere meglio gli obiettivi». Come si spiega allora l’invito di Mario Draghi a cedere sovranità sulle riforme strutturali? O si sbagliava il Consiglio, o si sbaglia Draghi, o le parole non significano nulla. In effetti non significano nulla, se non si spiega verso quali poteri sovranazionali, e democraticamente legittimati, si trasferiscono le sovranità.

A giugno si parlava di lotta all’evasione, alla frode fiscale, alla corruzione, alla violazione dei dati personali, al restringimento dei diritti: tutti temi assenti nei documenti di oggi. Si promettevano risposte comuni alla sfida della migrazione, tra cui «forti politiche dell’asilo», ma il proposito sembra dimenticato, mentre rimane l’ambiguità sui migranti irregolari (i profughi da zone di guerra sono sempre e per definizione «irregolari»). Non una parola sulla necessità di una politica pensata a fondo sul Mediterraneo e sui rapporti con la Russia. Resta la promessa di un comune piano d’investimenti nell’economia reale, pari a 300 miliardi di euro su 3 anni: una sorta di New Deal che Juncker ha esposto al Parlamento europeo, favorito in questo dai governi di Italia e Francia (è quanto va chiedendo l’Iniziativa cittadina che porta lo stesso nome: New Deal for Europe). Con che mezzi lo si voglia attuare non è chiaro – mentre l’Iniziativa cittadina chiede una duplice tassa comunitaria sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica – ma appoggiarlo sarebbe già un primo passo.