«Riconosciamo che la vita in Libia è terribilmente difficile per i libici così come per i rifugiati e i richiedenti asilo perché, oltre al conflitto armato, si sono aggiunte le restrizioni per fronteggiare l’emergenza del Covid-19». Le parole di ieri di Jein Paul Cavalieri, capo della missione dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) in Libia riassumono perfettamente il dramma che vivono i civili in Libia.

A pagare un prezzo caro sono soprattutto i migranti essendo la parte meno tutelata. Per 4.000 di loro l’Unhcr ha predisposto per il mese musulmano sacro del Ramadan l’invio di kit igienici e cibo nel tentativo di lenire le sofferenze. Un’iniziativa lodevole, ma che poco cambia la sostanza dei fatti essendone 700.000.

Di questi, precisa l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), almeno 1.500 sono attualmente detenuti in 11 centri statali in condizioni terribili più volte denunciate dalle organizzazioni umanitarie internazionali per la mancanza minima del rispetto dei diritti umani. Un numero imprecisato di loro è poi rinchiuso in centri informali sparsi nel Paese dove neanche l’Oim e le ong hanno accesso. Luoghi del dolore dove compiere abusi, stupri e violenze contro di loro risulta molto più facile data l’assoluta assenza di controlli.

Il rischio contagio Covid (una sessantina di casi registrati finora nel Paese, due morti) e il virus fame direttamente conseguenza delle restrizioni anti-Corona sono però solo due dei motivi che spingono i migranti ad accelerare i tempi e a provare ad attraversare il Mediterraneo con tutti i rischi che il “viaggio” comporta. A incidere è soprattutto la brutale guerra tra il Governo d’Accordo Nazionale (Gna) di Tripoli riconosciuto internazionalmente e l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) guidato dal generale Haftar.

Un conflitto iniziato un anno fa e che conosce in queste settimane di pandemia una pericolosissima escalation. I protagonisti, il premier del Gna al-Sarraj e Haftar, alternano frasi di guerra a quelle di pace. Le dichiarazioni di al-Sarraj ieri sono state emblematiche: da un lato ha lanciato un appello affinché venga accelerato il dialogo politico e a «porre fine alle divisioni». Dall’altro lato, però, ha chiesto di «serrare le file per cacciare l’aggressore che vuole prendere il potere con le armi».

Balletti simili li sta compiendo anche il controverso generale che la scorsa settimana si è autoproclamato «rais del tutto Paese», salvo poi chiedere una tregua per Ramadan (respinta immediatamente dal Gna). Haftar è isolato ed è palesemente in difficoltà: nelle ultime settimane le forze del governo di Tripoli hanno riconquistato gran parte dell’area nord occidentale del Paese e ora sono vicino a sfilargli anche la base aerea di al-Watiya (l’Enl ha resistito ancora nella parte meridionale) e minacciano di conquistare Tarhouna, unico appoggio dell’Enl nella Tripolitania costiera e strategicamente importante nell’offensiva su Tripoli. L’unica consolazione per il generale è arrivata ieri da Gasr Garabulli (a est di Tripoli) dove i suoi uomini hanno detto di aver compiuto dei progressi.

Militarmente indebolito e accusato dall’Onu per gli «indiscriminati attacchi contro i civili», Haftar sta giocando male le sue carte: la sua autoproclamazione è stata accolta con freddezza in patria (persino all’interno del governo di Tobruk a cui fa riferimento) e contrarietà tra i suoi alleati (Russia in testa), europei e statunitensi.

Dopo aver per mesi temuto di essere sconfitto, il Gna, complice del forte sostegno turco e dei mercenari islamisti arrivati dalla Siria, sa che ora l’inerzia del conflitto è dalla sua parte e prova a chiudere la partita. Lo sa bene anche la Turchia, il suo sponsor e il cui contributo è risultato fondamentale per recuperare il gap nei cieli con l’Enl. Se la scorsa settimana Ankara ha accusato Haftar di voler creare una «dittatura militare», ieri il governo turco ha invitato «tutte le potenze che lo sostengono a investire nel governo legittimo ai fini della pace e della stabilità».