Nella storia dell’arte, ci sono libri che pesano più di altri. Nel Novecento, per quanto riguarda la Sicilia, uno di questi è Giacomo Serpotta e gli stuccatori di Palermo di Donald Garstang, pubblicato a Londra nel 1984 e a Palermo, da Sellerio, nel 1990. Forse questo libro ha inciso anche di più del Sicilian Baroque di Anthony Blunt (1968), nel rendere noto a un pubblico internazionale un aspetto centrale dell’arte siciliana. L’autore conosceva minuziosamente la materia trattata e ricostruiva in modo organico la storia di Serpotta, passando al vaglio fonti, opere e contesto. E soprattutto, nei trent’anni di distanza fra il libro di Garstang e noi, una serie di energie forse poco prevedibili a metà degli anni ottanta si sono riattivate. Al tempo, gli oratori e le chiese che conservavano gli stucchi di Serpotta, persino quelli oggi più noti, erano spesso chiusi, se non in abbandono. Nel centro storico di Palermo, i borghesi entravano a mala pena. All’Oratorio di San Lorenzo, non era stata rubata solamente la Natività di Caravaggio, nel 1969, ma anche alcune figurine dei ‘teatrini’ eseguite dal grande stuccatore.
Allarme e degrado
Davanti a questo stato di allarme e di degrado, lo studioso californiano si innamorò di Palermo, si tuffò in archivi e biblioteche, mise in ordine la cronologia dell’artista, il cui sviluppo stilistico si comprende a pieno sfogliando le splendide illustrazioni che figurano nella prima edizione Sellerio. Nel libro di Garstang, Serpotta non è più «destinato a rimanere una figura isolata, una meteora nel cielo siciliano», per dirla con le parole di Rudolf Wittkower. Al contrario, la sua storia si intreccia con le dinamiche reali del lavoro artistico. Per Garstang non era necessario ipotizzare, ogni qualvolta si scovava un capolavoro in Sicilia, un viaggio a Roma per il suo autore, come spiegazione dell’eccezionalità del risultato. Anche nel volume Utet della Storia dell’arte italiana dedicato alla Scultura del Settecento di Antonia Nava Cellini (1982), dove una Fortezza di Serpotta fa bella mostra di sé in copertina, permane l’idea che dalla cultura romana lo scultore «attinse moltissimo».
La mostra che si è inaugurata qualche giorno fa all’Oratorio dei Bianchi – Serpotta e il suo tempo (a cura di Vincenzo Abbate, fino all’1 ottobre, catalogo Silvana Editoriale) – percorre giustamente la strada aperta da Garstang. Un grande merito della mostra è di ripercorrere la storia di Serpotta assieme alle altre grandi personalità del suo tempo. Su tutti, spicca la figura dell’architetto crocifero Giacomo Amato (1643-1732), alter ego dello scultore in termini di celebrità e percorso culturale. Tanto la sirpuzza si faceva strada fra gli esponenti delle confraternite laicali, quanto Amato, rientrato da Roma nel 1683, intercettava in pieno la sfera del potere. Il vero esponente della cultura romana è proprio il chierico architetto, che doveva muoversi in una Palermo in cui non mancavano influssi guariniani e borrominiani. In apertura di mostra, sono esposti a fianco due ritratti di Amato e di Serpotta, proprio a significare che la vicenda dei due va letta di concerto. Più che dalla libertà di Bernini, l’«idea» di arte professata da Amato viene dal rigore di Carlo Fontana e dal classicismo del teorico Giovan Pietro Bellori. Ed è questa la linea che si impone a Palermo, al tempo dei viceré Uceda o Veraguas, negli ultimi due decenni del Seicento. Amato struttura un sistema delle arti che comprende l’intero ciclo di produzione di un oggetto – sia esso un mobile, la decorazione di una cappella o l’apparecchiatura di un catafalco festivo. Dal disegno all’esecuzione finale, opere di architetti, pittori, modellatori in cera e argentieri si alternano in mostra, a restituire il senso di filiera, dove non doveva mai mancare la figura del supervisore. E spesso questo è il ruolo di Amato. Prima il suo braccio destro è Pietro Aquila (1630-1692), poi diventa il pittore Antonino Grano (1660-1718), altra intelligenza figurativa di primo piano dell’epoca. Serpotta dovette inserirsi come traduttore, di disegni di Amato o di Grano, in modelli in cera o in terracotta, che potessero servire poi agli argentieri per realizzare reliquiari e ostensori, o anche trionfi e repositori, dove marmi colorati e coralli potessero accordarsi a testine dorate di angeli.
Il terribile saio bianco
Nella Palermo tra Seicento e Settecento, la possibilità di aggiornarsi figurativamente era garantita dalla reperibilità delle stampe. Le rielaborazioni potevano essere geniali. Ad esempio, per le sue Virtù, Serpotta si serve di modelli antichi. Si tratti di una scultura di Agrippina o di una Musa vista in incisione, lui ne ricava una Carità o una Vittoria. Ma la statuaria antica viene del tutto trasfigurata, in termini espressivi. Entro una trama di rimandi fra figure, si inseriscono dolcezze, sensualità e compostezze, come se un naturalismo piacevole si potesse impadronire di ciascun personaggio, secondo una musicalità ogni volta diversamente modulata.
Occasioni del genere servono soprattutto a valutare quanto lavoro ancora ci attende, sul fronte dei restauri e della valorizzazione. La sede scelta per la mostra è particolarmente felice. All’Oratorio dei Bianchi si riunivano, incappucciati di un saio bianco, quei nobili di alto rango che consolavano per tre giorni e tre notti i condannati a morte che dovevano percorrere un’ultima volta le stradine della Kalsa, prima di affrontare il patibolo. Dopo i soliti decenni di abbandono, l’Oratorio dei Bianchi è stato restaurato e la mostra intende presentarlo al pubblico in una nuova veste. Qui sono collocate le sculture di Serpotta che un tempo si trovavano nella chiesa delle Stimmate di San Francesco, demolita fra il 1867 e il 1875, per far posto alla piazza antistante il Teatro Massimo. Anche decontestualizzati, angeli acrobatici e teatrini di Serpotta fanno il loro effetto. A pochi passi dall’Oratorio dei Bianchi, c’è il Noviziato dei Padri Crociferi, primo capolavoro di Amato retour de Rome, e in mostra è esposto il prospetto, chiaro e rigoroso, dal lato del mare (1687). A partire dall’inizio del Settecento, qui si sarebbero celebrati gli ingressi trionfali dei sovrani, venuti dal mare a prendere possesso della città: accade nel 1713, coi Savoia, e nel 1735, con i Borbone. Il complesso è stato in buona parte recuperato nella migliore stagione dei restauri palermitani, quando grazie alla prima fase del progetto comunitario Urbani (1994-1999), venivano riqualificati monumenti e piazze nei mandamenti sul mare del centro storico. Potenti ordini religiosi, come i Crociferi o le monache di clausura della Pietà o di Santa Teresa, si erano insediati alla Kalsa, dove nacque anche Serpotta. L’asse principale del quartiere era l’antica strada di San Niccolò (oggi via Torremuzza/via Butera) e Amato ha il compito di progettare diverse facciate di chiese e palazzi nella strada, che avrebbe le carte in regola per divenire la «via del Barocco» di Palermo – un po’ sul modello di quanto fatto a Genova, con i Musei di Strada Nuova. La chiesa di Santa Teresa, anche essa su progetto di Amato e decorata da sante di Serpotta, è stata restaurata nel 2006, ma è notizia di un mese fa che nei pressi dell’ex-convento si trovava una centrale dello spaccio di droga.
L’ovale cade in pezzi
La chiesa della Pietà, realizzata fra 1698 e 1699, con le colonne libere in pietra di Billiemi, è fra le più belle di Palermo, ma versa in pessime condizioni di conservazione. L’ovale con gli stucchi del portale laterale minaccia di cadere a pezzi e le sculture in facciata, eleganti figure del cognato di Serpotta, Gioacchino Vitagliano, sono completamente annerite. Se si entra nelle due chiese, si intende bene come le competenze fra pittori, scultori e argentieri si integrassero, subordinate alla regia di Amato. A Santa Teresa, il classicismo romano rimbomba sin dall’ingresso, con le due pale d’altare di Sebastiano Conca e di Giovanni Odazzi. Serpotta definisce gli stucchi della volta e le due sante, Teresa e Anna, dolcissime, nell’abside. Alla Pietà, Grano dipinge l’affresco della volta centrale con il Trionfo dell’ordine domenicano, alla bottega di Serpotta spetta l’ordito della quadratura, coi telamoni in stucco. Dopo la risistemazione barocca, non poteva più figurare sull’altare maggiore la Pietà cinquecentesca di Vincenzo da Pavia. L’idea per la nuova cornice in stucco del quadro, ricollocato in una cappella laterale, l’avrebbe potuta fornire lo stesso Amato, architetto-designer: è in mostra un suo disegno, per una «cornice di stuccho ed oro per un quadro grande». Ora sull’altare doveva splendere una poderosa macchina, dove il bronzo dorato sutura una gran quantità di materie preziose: diaspri, pietre dure, lapislazzuli, agate e ametiste. Gli angeli e i putti nell’abside non sono di mano del maestro, ma giustamente in catalogo Abbate sostiene che il modello dell’Eterno in rame dorato al centro del tabernacolo sia stato consegnato all’argentiere proprio da Serpotta.
La lista delle chiese
La chiesa della Pietà è solo la prima nella lista di priorità. Non vanno dimenticate le chiese di San Matteo al Cassaro o di Santa Ninfa dei Crociferi, entrambe in stato di avanzato degrado e bisognose al più presto di interventi. Spesso non bastano le attenzioni encomiabili di confraternite e associazioni, come è nel caso delle chiese di Sant’Orsola e dell’Assunta, o degli Oratori di San Mercurio e del Carminello. Sono tutti luoghi che avrebbero bisogno di cure maggiori, anche perché si sa, sin dal libro di Garstang, quanto siano cruciali per intendere la parabola di Serpotta e degli altri grandi artisti del suo tempo. In mostra si sottolinea giustamente l’importanza di Casa Professa, la super-chiesa che i gesuiti abbellivano costantemente, e che conosce un suo momento di splendore fra 1703 e 1721, quando si ordina la decorazione dell’abside. L’incarico di fornire i disegni venne affidato a Grano, la definizione dei modelli spetta a Serpotta, e alla fine sarà Vitagliano a scolpire i marmi. Per Garstang questo era – e rimane – «uno dei capolavori del barocco italiano più trascurati dalla critica e meno conosciuti dal pubblico». I colori del marmo – blu, rosso e giallo – servono qui a costruire fondali di paesaggio in prospettiva, e sul piano spuntano i personaggi: Abigail in ginocchio davanti a David o Achimelech che rende un’offerta allo stesso re della Bibbia. Come a teatro, ci sono le quinte, da cui entrano o escono personaggi secondari, e i putti, seduti su un cornicione o alle prese con una capra in primissimo piano, al solito disinteressati della storia sacra. Nel dialogo con altre maestranze, che potevano impreziosire con altri colori e materiali i suoi stucchi, l’arte di Serpotta assume forme e direzioni nuove e più ricche, che anche chi conosce i suoi capolavori non potrebbe sospettare