La realizzazione della serie tv su una delle comunità per tossicodipendenti più controverse del panorama italiano è l’occasione per fare il punto sulle politiche sulle droghe in Italia.

La terribile vicenda di San Patrignano, infatti, va inquadrata in primo luogo nella situazione che si venne a creare negli anni Ottanta, quando una società spaventata e incapace di affrontare la diffusione dell’eroina decise di dare una delega amplissima ad alcune delle nascenti comunità.

Fino al punto di avallare, facendone talvolta un simbolo per alcune parti politiche, un approccio che prevedeva l’espulsione e l’isolamento delle persone dalla comunità di appartenenza, a qualunque costo, in virtù di un mandato quasi onnipotente che ha lasciato spazi larghissimi – fino ai fatti gravissimi riportati nella serie – a chi si proponeva come unico salvatore.

La “droga” era il mostro che giustificava tutto. Proprio questa concezione del fenomeno droghe e del modo per affrontarlo sarà poi cavalcata da chi voleva imporre anche in Italia, per ragioni politiche, una “guerra alla droga” che, inevitabilmente, portò a una repressione mirata verso i consumatori di sostanze, riempiendone le carceri.

Si è accettato il ricatto di chi diceva che non c’era altro modo per “uscire dalla droga” se non la costrizione, la punizione, fino purtroppo a giustificare azioni di violenza inaudita.

La campagna “Educare, non punire” che portò al referendum del ’93, nacque proprio per contestare l’approccio repressivo della  legge Jervolino-Vassalli, ispirato anche dal fondatore di San Patrignano. La campagna aveva l’obiettivo di rifiutare il condizionamento violento delle persone e il carcere come mezzo prioritario di induzione al cambiamento.

Altri approcci erano possibili, come negli anni è stato dimostrato in modo inequivocabile dalla moltitudine di comunità e servizi di vario tipo, non solo del CNCA, che non hanno mai usato la violenza, fisica e psicologica, per sostenere le persone con problemi di dipendenza e accompagnarle con successo al cambiamento e al reinserimento nella società. Anche nella cura delle dipendenze, il fine non giustifica i mezzi.

L’autore è presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA)