Sergej Esenin non fu un cantore della rivoluzione. L’attraversò, ne fu influenzato, perfino soggiogato, ma dei comunisti fu solo un «compagno di viaggio» (poputcki) come Voronskij definì con fortunata sintesi molti intellettuali russi di quella generazione. I versi di Esenin che mandarono in visibilio la Russia profonda, quelli capaci di entrare in connessione sentimentale con le sue aspettative, sono quelli ricamati sulle immagini della natura, della vita degli animali, dei motivi religiosi che diventarono cosmismo e lirismo patrio quando entrarono in contatto con il mutamento rivoluzionario.

La prosa militante non era la sua cifra emotiva e quando vi si avventurò come nella Ballata dei 26, i risultati furono più che deludenti, sottolineò Varlam Šalamov. Negli eventi di febbraio e ottobre, Esenin vede l’attuazione delle idee del socialismo patriarcale, la libertà tanto attesa della campagna, il paradiso del mujik. Il poeta torna a Mosca a lavori rivoluzionari in corso ed è sconvolto dalla realtà metropolitana, dal fervore dei mutamenti. Il biennio 1917-1918 è per lui intensissimo: legge le sue opere quasi ogni giorno agli incontri della nuova intellighenzia, prende parte a molte maratone e sfide poetiche, entra a far parte di molti sindacati e organizzazioni creative della Russia sovietica. Tuttavia l’avvicinamento al bolscevismo di Esenin è basato su un malinteso. La rivoluzione comunista è industrialista, cosmopolita, modernizzatrice e ciò non può provocare in lui inquietudine e risentimento.

Cavallino bianco
In una lettera dell’agosto 1920 all’amica Evgenija Isaakovna Livšic, Esenin scrive: «Viaggiavo da Tichoreckij a Pjatigorsk, quando improvvisamente sentiamo delle grida, guardiamo dal finestrino: dietro la locomotiva un piccolo puledro galoppa con tutte le sue forze. Dal modo in cui galoppa capiamo che si è messo in testa di superare la locomotiva. Ha corso molto a lungo, finché, sfinito, in una qualche stazione lo hanno acciuffato. Questo episodio, insignificante per qualcun altro, a me dice moltissimo. Il cavallo d’acciaio vince quello vivo; e questo piccolo puledro fu per me l’immagine evidente e cara del villaggio che sta morendo e del sembiante Machno… (nome del comandante dell’esercito insurrezionale rivoluzionario d’Ucraina, ndr). Non si sta realizzando assolutamente quel tipo di socialismo a cui pensavo, ma uno definito e deliberato, come un’isola di Elena, senza gloria e senza sogni».

Se lo si vuole per forza inquadrare politicamente, più che ai comunisti, Esenin è evidentemente più affine alla rivoluzione verde dell’anarchico ucraino o al laboratorio del populismo dei socialrivoluzionari. Il suo comunismo è quello dell’obšcina baluginato da Vera Zasulic non è certo l’accumulazione primitiva socialista e stabilimenti Putilov.

Non sarà un caso che Esenin diventerà presto amico di sbronze e compagno di risse di Jakov Bljumkin la cui biografia è un bengala che solca il firmamento rivoluzionario degli anni ‘20: già terrorista populista, diventa organizer del treno di Trotsky durante la guerra civile e fomenta rivolte in Persia. Quando giunge a a fare il cekista a Mosca, ha solo 20 anni. Qui diventa uno dei fondatori della società dei «liberi pensatori», il gruppo letterario fondata da Esenin che vuole garantire alla corrente immaginista il sostegno di Lunacharskij, commissario del popolo alla cultura, e ottenere qualche sovvenzione.

Per gli immaginisti la rivoluzione non doveva essere solo pane ma anche rose. «Com’è cambiata la natura del bello nella nostra epoca! Cerchiamo e troviamo l’essenza del bello nelle scosse catastrofiche dello spirito contemporaneo, nei pericoli di una navigazione verso le nuove Americhe, verso nuovi modi di stare al mondo. È così che intendiamo la rivoluzione» scrive Esenin nel manifesto di fondazione dell’associazione.

Si tratta di folgorazioni che piacciono a Trotsky più della grammatica futurista e soprattutto assai più del prolet’kult di Alexander Bogdanov, importato in modo approssimativo anche in Italia da Antonio Gramsci perché rigetta implicitamente l’idea della cristallizzazione di un’arte operaia, di un’arte del periodo di transizione. «Il compito principale dell’intellighenzia proletaria nell’immediato futuro non è la formazione astratta di una nuova cultura indipendentemente… ma di una trasmissione sistematica, pianificata e, naturalmente, critica alle masse arretrate degli elementi essenziali della cultura che già esiste» scrive il rivoluzionario russo.

Il bolscevismo si rappresentava e si celebrava come urbano e macchinista ma la Russia degli anni ’20 restava incontrovertibilmente un paese contadino che si nutriva di immobilismo. Trotsky intuisce che personaggi come Esenin con i loro tour letterari nella sterminata provincia sovietica potevano rappresentare un ponte, soprattutto in una realtà in cui i moderni mezzi di comunicazione di massa non erano ancora diffusi, tra due mondi lontani e per certi versi ostili. Il 21 agosto del 1923 Trotsky invita Esenin al Cremlino e gli propone di fondare una rivista letteraria in cui il poeta di Rjazan avrà completa libertà di espressione e di scelta dei collaboratori con solo due paletti: «niente pornografia né propaganda controrivoluzionaria». Esenin rifiuta, probabilmente teme uno sponsor tanto importante quanto ingombrante, tuttavia ottiene per il permesso di pubblicare l’almanacco degli scrittori contadini russi e avviare altri progetti. La sua opinione di Trotsky si accresce notevolmente dopo l’incontro. In una lettera alla moglie, la ballerina californiana Isadora Duncan del 29 agosto 1923, Esenin scrive: «Ero da Trotsky. Mi ha trattato in modo straordinario. Grazie al suo aiuto, ora mi daranno grandi fondi per le pubblicazioni». Di lì a breve lo citerà anche nell’autobiografia e in due poesie.

Vita breve
Le stelle di Trotsky e di Esenin – a questo punto – sono però al tramonto. Trotsky verrà emarginato dal nuovo corso staliniano e continuerà fino all’assassinio in Messico a rivendicare i caratteri originari della rivoluzione leninista. Esenin, prigioniero del suo mito, percorrerà tutti i gironi dell’inferno dell’alcolismo e di un teppismo senza causa, fino al suicidio a Leningrado.

Un mese dopo la morte il capo della futura IV Internazionale pubblicherà sulle colonne della Pravda un vibrante ricordo dell’artista: «No, il poeta non era estraneo alla rivoluzione, ma non le era affine. Esenin è intimo, tenero, lirico: la rivoluzione è epica, pubblica, catastrofica. Per questo la vita breve del poeta si è spezzata con una catastrofe… Il poeta è perito perché non era affine alla rivoluzione. Ma nel nome del futuro essa lo adotterà per sempre come suo figlio».

Post-mortem non verrà perdonato nulla al poeta di Kostantinovo. Dopo un anno, in funzione antitrotskista, Nikolaj Bucharin scriverà un violento pamphlet contro il suo «teppismo letterario» e le infami illazioni (postume) sul suo antisemitismo e persino sulla sua complicità con le fucilazioni degli oppositori nei sotterranei della Lubjanka si sprecheranno, giungendo sino a noi. E durante l’epoca staliniana la sua opera finirà nell’oblio. Saranno non più di una dozzina le antologie dei suoi versi pubblicate in quel periodo. Esenin tornerà in auge, nell’olimpo della poesia russa del tutto meritato, solo a partire dagli anni Sessanta.

Esenin, creatore di miti senza precedenti: un’intervista con il suo biografo

Di Zachar Prilepin, scrittore, giornalista e attivista politico russo in Italia sono stati pubblicati alcuni romanzi: Sank’ja (2012), Scimmia nera (2013) Il Monastero (2017), tutti editi per i tipi di Voland. Quest’anno è uscita per Molodaya Gvardiya una sua monumentale biografia del poeta russo. A tale proposito abbiamo avuto con lui una chiacchierata.

Perché ha deciso di scrivere una biografia su Sergej Esenin?
Ho iniziato a leggere Esenin a nove anni, l’ho studiato per tutta la vita, posso recitare a memoria qualsiasi delle sue poesie e dire in che anno è stato scritta e più o meno in quali circostanze. Esenin per me è colossale e unitario. È un poeta al contempo religioso, sovietico, lirico, da taverna e di campagna.

In che misura Esenin ha trasformato la sua biografia in mito?
Esenin fu un creatore di miti senza precedenti. Il mito principale su Esenin è collegato al fatto che la gente lo immagina come un giovane contadino. La sua affermazione, «mio padre era un contadino, io sono un figlio di contadino» è falsa: in qualche misura la vita agreste ha a che fare con le origini sociali di Esenin, ma non con la sua biografia. Suo padre lavorava come impiegato a Mosca, i suoi nonni non lavoravano nei campi e in una delle sue prime lettere, scrisse: «tutti sono andati a falciare l’erba e io sto giocando a croquet». In seguito lasciò il villaggio per studiare in una scuola parrocchiale e da lì si trasferì a Mosca. Allo stesso tempo però va detto che Esenin nacque e visse nel classico villaggio russo e ascoltò tutte le ninne nanne e le canzoncine di campagna di prammatica, era saturo di quella cultura e dell’ambiente contadino. Venne alla poesia, dove fino ad allora regnava la nobiltà. Non solo Blok e Andrej Belij erano imparentati con la nobiltà, ma anche il principale avversario di Esenin, Majakovskij, e i suoi amici Šeršenevic e Mariengof, erano anch’essi di famiglie nobili. Il mito principale di Esenin è quello di un ragazzo del popolo che dice: sono un rappresentante delle persone semplici giunto da voi aristocratici, e posso battervi tutti in un onesto duello poetico.

Un uomo della Russia profonda che riuscì a trovare un modus vivendi con il potere sovietico…
Esenin era uno dei poeti più popolari in Russia, era uno che poteva fare un tour in tutto il paese con le sue poesie e lo Stato acquistava le sue raccolte di versi per diecimila rubli, veniva pagato un rublo a riga. Con quei soldi in Urss si sarebbe potuto vivere cinque anni senza fare nulla. Quando oggi qualcuno dice che il governo sovietico non trattò molto bene Esenin, forse soffre un po’ di schizofrenia, perché oggi nessuno può vivere facendo poesia. Esenin era percepito come una delle principali figure letterarie della Russia sovietica e anche Dzerzinskij e Trotsky lo ammiravano e vollero incontrarlo.

Un poeta maledetto, lo si può definire il «Rimbaud russo»?
I suoi grossi problemi con l’alcol sono noti e il tema del suicidio attraversa tutta la poesia di Esenin e compare non solo nell’ultima poesia Addio, amico mio, arrivederci! Disse più volte addio alla vita, ne ha scritto con invidiabile costanza. In un modo o nell’altro, sono stati contati almeno dieci suoi tentativi di suicidio. La depressione e l’ossessione morbosa lo fanno un degno compare di Majakovskij, Marina Cvetaeva e Boris Ryzim: del resto tutte queste biografie possono essere studiate da un punto di vista filologico, ma da un punto di vista psicologico. Una struttura complessa di natura poetica, che generalmente è incompatibile con la vita.

Come spiega l’incredibile popolarità di Esenin?
Penso che ci siano diverse componenti. La rottura del destino verso la quale il popolo russo è incline a provare compassione, in primo luogo. Inoltre Esenin fu un brillante innovatore e modernista che ha raggiunto una semplicità poetica senza precedenti grazie alla sua maestria. Ecco perché le sue betulle, le sue gocce di rugiada, il suo vento e le sue rose non possiedono un grano di quella volgarità che si manifesta quando vari chansonnier tentano di replicarlo. Colpendo il cuore umano, la perfezione estetica e poetica fa di Esenin un poeta riconosciuto in tutto il mondo. È traducibile ed è considerato un genio non solo in Russia, perché è un grande poeta. Esenin è stato in grado di esprimere dolore non solo per dei cuccioli, una mucca o una volpe uccisa, per la perdita di una donna e un destino ubriaco, ma in poemi come Anna Snegina e Pugacev, ha detto qualcosa sulla Russia che le persone semplici non sempre capiscono, ma che percepiscono come l’intercessore di tutta la Russia davanti al Signore. E tutto ciò ne ha fatto la figura ideale del poeta russo.