Per Sergei Loznitsa la settantaduesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia è la prima. A Venezia, il regista ucraino, che ha visto i suoi documentari mostrati e premiati in mezzo mondo (il più recente dei quali, Maidan, 2014, ha vinto il Festival dei Popoli lo scorso dicembre) e tutti e due i suoi film a soggetto (My Joy, 2011 e In the Fog, 2013) scelti per la competizione internazionale di Cannes, ha presentato Fuori Concorso il lungometraggio documentario The Event. Terzo lavoro uscito dall’esplorazione dell’archivio Studia Dokumentalnik di San Pietroburgo, il film ricostruisce attraverso il montaggio di materiali in bianco e nero girati da operatori professionisti le proteste e i movimenti di piazza sorti all’indomani del colpo di stato (conosciuto come “putsch”) che nell’agosto del 1991 tentò il rovesciamento del governo Gorbaciov e che fu all’origine, pochi mesi più tardi, del collasso dell’Unione Sovietica.

Sergei Loznitsa, classe 1964, arriva al cinema quasi trentenne dopo una formazione e un primo avvio di carriera da matematico. Il primo cortometraggio in bianco e nero – Today we are going to biuld a house – è del 1996 ed è un documentario, girato ancora durante gli studi presso la scuola di cinema di stato di Mosca. Di lì in poi la carriera di Loznitsa si costruisce film dopo film come brillante dimostrazione di quanto il cinema documentario di creazione non possa e non debba essere considerato parente povero del cinema a soggetto. Fino al 2000 non c’è altro che pellicola e bianco e nero: ogni film un dispositivo raffinato ed essenziale che lavora sul racconto della provincia russa post sovietica. Poi arrivano anche il colore e il video digitale. Prima di ogni film una lunga ricerca che è più indagine figurativa di quanto sia esplorazione antropologica. Dopo le riprese, un processo di montaggio sempre più articolato con il succedersi e accumularsi dei film, sempre più concentrato sulla raffinata tessitura di una colonna sonora (si legga: tutto quello che non è immagine e che di un film si ascolta) costruita a tavolino (da molti anni ormai accanto all’ingegnere del suono Vladimir Golovnitzkiy, lituano sodale del clan raccolto intorno al più celebre Sarunas Bartas), in studio, al pari di una composizione musicale, con una struttura interna, elementi ricorrenti, un diagramma di toni e colori che riflettono una partitura emotiva precisa. I film di Sergei Loznitsa costruiscono un racconto implicito e discreto che è immediatamente anche discorso politico fondato sul dialogo tra visibile e invisibile, presente e assente, tra la rimozione del segno assertivo e il riposizionamento dell’ellissi.

Nel suo lavoro, nel suo stile Loznitsa mostra una via rigorosa e potentissima al vero cinema politico, lo stesso invocato e rivendicato, molti anni prima di lui, da Sergei Ejzenstejn: un cinema che prende posizione e fa la differenza nelle scelte tecniche, in quelle estetiche e di linguaggio, rifuggendo i pubblici proclami, i film a tema, la riduzione del cinema a veicolo per altro che non sia immagine audiovisiva condensata.

Cominciamo dall’inizio: qual è l’origine di questo progetto?

Ho lavorato a lungo al Studia Dokumentalnik Filmov di San Pietroburgo (il più vecchio studio statale di produzione di film documentari in Russia, ndr) dove esiste un prezioso archivio. Ormai posso dire di conoscere piuttosto bene l’enorme collezione di materiali che contiene (per via della frequentazione iniziata già dai primi anni Duemila, ndr). Avevo visionato uno stock di materiali proprio degli anni tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta già una decina di anni fa. Dopo aver finito Maidan ho pensato che sarebbe stato interessante tornare a quei materiali e lavorarci su per costruire un film sulla Russia di quel periodo. In fondo penso che tra i due eventi – la rivoluzione ucraina e le proteste contro il fallito colpo di stato del 1991 in Unione Sovietica – ci sia una rima perfetta: sono due movimenti che si possono facilmente mettere uno accanto all’altro; c’è quasi una linea che attraversa questi due che potremmo chiamare punti nodali, due eventi fondamentali riconducibili a una sola sequenza. Forse in futuro potrebbe aggiungersi anche un terzo evento sulla linea della storia della Russia; forse il prossimo anno, forse nell’estate del 2017. Dobbiamo aspettare che si celebrino i cento anni di quella che chiamano “rivoluzione” di febbraio, e poi del colpo di stato dell’ottobre successivo. Forse questo nuovo evento cruciale accadrà tra il primo e il secondo anniversario, in estate, che poi in Russia è la parte dell’anno migliore per realizzare questo genere di rivolte e di cambi dello status quo.

Quando guardi le facce di quei russi, dei russi del 1991, ti rendi conto che si tratta di una nazione che non esiste più. Non sono solo io a dirlo: ho parlato con molti russi che hanno visto il film qui a Venezia e ho scoperto che si tratta di un’impressione comune e condivisa. Se si fa il confronto tra la Russia del 1991 e quella di oggi, sembrano essere passati non ventiquattro ma cento anni.

Il titolo internazionale è la traduzione esatta di quello originale in russo?

Sì, l’evento.

Tornando all’idea che ci sia un legame tra il precedente Maidan e questo film, mi pare che ripassando mentalmente la sua filmografia film dopo film, senza distinguere tra documentari e film a soggetto, si disegni una sorta di ascesa, di salita a un certo punto della quale questo film arriva come un passaggio cruciale, forse addirittura come un termine. Come se i film precedenti fossero in qualche modo anche preparazione di questo ultimo e che esso fosse una sorta di culmine di questa traiettoria ascendente.

The Event ha una forte connessione con diversi dei miei film: con Blockade (2005) e con Maidan (2014), e anche con Landscape (2003) e con The Train Stop (2000) . Ognuno di questi film è come se fosse una variazione, una declinazione differente della stessa operazione, un modo diverso di descrivere la società post-sovietica. Usando una metafora, è come se il corpo della nazione sovietica in quegli anni fosse da qualche parte in fondo all’oceano, e nel momento dell’evento il corpo fosse salito in superficie, raggiungendo un po’ d’aria fresca fuori dell’acqua. Dopo quel momento però quel corpo è tornato a immergersi in acque profonde. Se l’Ucraina oggi salta fuori dell’acqua o esce alla luce del sole e trova una posizione d’equilibrio in quest’oceano, allora la Russia sprofonda con il suo corpo gigantesco. Come Moby Dick che lotta senza tregua contro il suo destino. Mi pare che in Russia si sia tornati al solito vecchio sonno, come se non volessero vedere quello che succede intorno a loro.

Uno degli elementi più rilevanti nel suo modo di fare cinema che anche in questo nuovo film si conferma e si approfondisce – nonostante si tratti del montaggio di materiali d’archivio – è la scelta del punto di vista. Un punto di vista che in un caso come questo – il racconto di una protesta di piazza – risulta sorprendente e inatteso, perché anche in The Event sembra che scelga ancora una volta uno sguardo periferico, lontano dal centro, distante del teatro dell’azione.

Se stai nel centro non vedi nulla. Devi startene fuori, distante. È la posizione dell’osservatore. Sono molto contento che durante i fatti del 1991 qualcuno dello Studio abbia deciso di girare anche a Leningrado, perché non mi interessava concentrarmi sui personaggi politici e sui loro scontri a Mosca. È per questo che non mostro i personaggi simbolo di quegli anni come Gorbaciov. Vengono nominati nelle didascalie e questo mi sembra sufficiente, poi nelle immagini si vede qualche foto appesa qua e là, ma niente di più. Se avessi fatto una ricerca storiografica sarebbe stata una cosa completamente diversa, avrei dovuto rispondere a una domanda che per me resta ancora quasi un mistero: che cosa è successo davvero in quei giorni? Che cosa significa davvero la soluzione di quella crisi? In quei giorni sono successe molte cose strane, anche agli stessi organizzatori del “putsch”: sono rimasti in prigione un anno e poi, senza alcun processo, è arrivata un’amnistia per tutti. E poi avrei molte altre domande anche su Gorbaciov, ma questa è un’altra questione. Sono contento di potermi concentrare invece sulle cose che possiamo capire dalla gente, da queste immagini dei volti, dei gesti. È da qui che possiamo capire qualcosa di vero su quel momento. Da una parte credo si sia trattato senza dubbio di un teatrino, di una messa in scena orchestrata da qualcuno, immagino dai servizi segreti, comunque dall’alto; dall’altra, c’era di sicuro una volontà risoluta da parte della gente, e nel mio film questo lo si vede bene. Dopo, tutto è tornato alla normalità. Nella storia della Russia ci sono due di questi momenti eccezionali: uno nel febbraio del 1917 e l’altro nell’agosto del 1991. Prima, non riesco a ricordarne altri, solo secoli di schiavitù. Nel Ventesimo secolo vedo la stessa schiavitù, a parte che per questi due rapidi momenti in cui è come se si fosse aperto uno spiraglio nella porta della Libertà.

Altra cifra stilistica tipica del suo cinema è l’elaborata scrittura della colonna sonora. In Blockade si arriva addirittura alla ricostruzione da zero di una dimensione sonora per immagini all’origine mute. E qui? Come avete lavorato al sonoro? Quanta parte è “originale” e quanta parte è creazione arbitraria?

Ho montato le immagini e poi, come si sviluppa la pellicola, ho immerso le immagini montate in un po’ di “liquido sonoro” e infine ho tirato fuori il film e l’ho lasciato asciugare. Il suono originale è solo quello dei pubblici raduni e dei discorsi letti da alcuni leader politici. Quando ho iniziato la mia ricerca sono rimasto sorpreso di quanto pochi fossero gli archivi ancora esistenti: è stato registrato moltissimo materiale all’epoca, ma di quel materiale io ne ho ritrovato solo poche tracce, appena sette o dieci ore in tutto. Abbiamo ricostruito le singole frasi dei discorsi grazie a Youtube: ho trovato diversi video dell’epoca e ho preso il sonoro di queste parti da lì. Ovviamente c’abbiamo lavorato molto sopra, abbiamo riparato, cambiato e aggiunto molto – motori, folle, pioggia, musica, qualche commento sparso – il resto lo abbiamo raccolto da diverse fonti d’archivio. Ho lavorato al montaggio della colonna visiva due o tre settimane, ma per le ricerche dei materiali sonori mi ci sono voluti diversi mesi, passati frugando in rete. Mi piacerebbe poter presentare pubblicamente tutti questi frammenti come il suono del subconscio russo.

Restiamo sul sonoro concentrandoci sui processi di scrittura e riscrittura, sull’insieme di operazioni tecniche che diventano poi fatto di stile. In particolare mi sembra interessante approfondire un aspetto specifico: il tempo, la dimensione temporale del tutto particolare che i suoi film assumono proprio grazie al lavoro sulla colonna sonora.

Sai bene che nel cinema presentiamo sempre il passato. Semplicemente non possiamo mostrare il futuro. In realtà si tratta di un’illusione di passato, è un passato passato e per questo perduto. Se un film funziona è perché qualche volta quel passato diventa presenta proprio mentre ti passa davanti sullo schermo. Il cinema, può registrare il tempo, un tempo illusorio però. Il tempo in sé non esiste, è solo una funzione della memoria: sappiamo cos’è il tempo solo perché abbiamo una memoria. Possiamo disporre nella nostra memoria cosa viene prima e cosa dopo solo perché possiamo marcare dei punti di riferimento, dei valori, il che prevede anche l’immaginazione di una linea, ed è su questa linea che facciamo scorrere l’illusione del tempo.

Quel che faccio io è giocare con il presente, con il momento attuale. È come se avessi sempre davanti a me due film: da una parte quello che vedo, il materiale – che viene dal passato – sul quale lavoro, e dall’altra quello che so del presente, il pensiero invisibile sulla natura del momento in cui vivo. I due film sono una cosa sola e lavorano insieme: ogni situazione che è dentro il film è connessa con una situazione simile fuori, nel mio presente, ma anche con tutte le diverse possibilità contenute in potenza dentro quella specifica situazione interna al film. Significa che lavorando in questo modo includo anche il contesto, che forse è addirittura più potente del film in sé. Per questo il film funziona, per questi due flussi di proiezione, e questo è anche il motivo per cui si può dire che The Event, che ufficialmente è un film sul passato, abbia invece una forte relazione con il presente. C’è una vicinanza essenziale tra quel passato e la situazione attuale: la Russia si trova oggi in una nuova impasse. Tutti i russi che l’hanno visto mi hanno detto la stessa cosa: The Event parla proprio di oggi. Buffo no? Perché non abbiamo solo le immagini – quel che vediamo – ma anche il contesto che gli danza intorno – quel che non vediamo. Il meccanismo del cinema in genere è questo: il sole produce i fotoni, i fotoni producono l’apparizione di tutto quel che ci circonda, e ci servono a vedere, a capire, a toccare, insomma a vivere. Il cinema è come la luce che ci offre l’apparizione delle mille specie diverse di fiori nel mondo astratto della percezione, poi però questi fiori sono anche oggetti molto concreti.

Torniamo alle immagini. Che si tratti di film di montaggio, documentari o film a soggetto, sembra che la sua cifra stilistica si fondi sull’alternanza tra due elementari della regia: l’inquadratura fissa e la panoramica orizzontale.

Conosci Sergei Paradzanov? Paradzanov faceva collage meravigliosi usando un mucchio di spazzatura, raccogliendo pezzi di tessuto, di cocci e ceramiche, di foglie e di fiori, mettendoli insieme in composizioni meravigliose create dal nulla. Ognuno di questi collage possedeva uno stile proprio, uno stile preciso: lo stile di Paradzanov. Funziona così, senza che tu possa capire bene come, è una sorta di scrittura automatica: è come respirare. Non si può descrivere il proprio respiro. È una questione di scelte: quando scelgo un’inquadratura piuttosto che un’altra non so esattamente come succede, perché lo faccio. Agisco secondo una sensazione, un istinto. So che userò quell’inquadratura e che la userò per aprire il film. Un altro regista magari avrebbe fatto una cosa completamente diversa. Credo siano le scelte a far affiorare il tuo stile.

Per esempio in The Event ho usato quadri neri che scandiscono il film in blocchi e anche questo è un elemento di stile: costruendo frasi dal montaggio d’inquadrature diverse produci senso e anche il senso appartiene allo stile, il modo in cui produci senso è sicuramente parte dello stile. Forse è anche possibile togliersi gli occhiali che propongo io facendo il mio film, e guardare questo materiale come qualcosa che può esistere secondo stili differenti. Ho lavorato duro per ottenere un’architettura dotata di un unico stile coerente: penso al mio materiale come a una formula matematica, devo operare una decisione ma è una materia complessa, ci sono molte configurazioni possibili per ciascun episodio. Lavoro in questo modo, aprendo sempre nuove tracce, nuove direzioni, nuove possibilità proprio come succede con la musica. Si può rimuovere parte di una frase, come fa Shostakovich, come fa Stravinsky: si rimuove qualcosa e si scoprono così nuove forme che funzionano di più e che sono più interessanti di quel che c’era prima, di quando la melodia era completa, con tutte le note al loro posto. Lo stesso vale per il cinema.

La cosa più mistica per me è che nel 1991, dopo le riprese che hanno dato luogo al materiale che ho usato per The Event, qualcuno ha deciso di fare un internegativo mettendo insieme tutto il girato e riponendolo poi nell’archivio. Normalmente succede poi che un negativo così lungo lo si tagli per farne un po’ di tutto, ma in questo caso qualcuno ha deciso di conservarlo intero per il futuro. Forse ogni cosa esiste nello stesso tempo e siamo noi a tirarla dentro il sentimento del flusso temporale. Ho quasi la sensazione che qualcuno, allora, abbia avuto il presentimento che ventiquattro anni più tardi un altro sarebbe arrivato e da quel materiale ci avrebbe fatto un film. Nella mia vita questo genere di cose succede in continuazione. Forse un giorno farò un film anche su questo.