Un ragazzo con in mano una bomboletta esce dal ristorante dove si celebra un rumoroso matrimonio. Con gli amici si diverte a usare lo spray come un lanciafiamme, poi si stacca da loro e si ferma sul bordo di una scarpata. La macchina da presa lo inquadra di profilo prima di indugiare in una lenta panoramica verso il bosco. Quando finalmente assumiamo lo stesso punto di vista del ragazzo non vediamo altro che della terra smossa.

Il tempo  dell’inquadratura è però troppo lungo perché si tratti di irrilevanze. Che cosa nasconde quella terra? Chi è seppellito in quella buca? Impossibile non farsi delle domande, anche perché ci troviamo in Serbia, nel 1999 durante la guerra del Kossovo, nelle settimane dei bombardamenti Nato su Belgrado. La questione rimane sospesa: dopo aver scrutato invano il quadro, lo spettatore rimane con i suoi dubbi. Ognjen Glavonic, regista di Teret – The Load passato sabato alla Quinzaine des Réalisateurs, non dà risposte e preferisce alimentare in modo sottile la tensione.

Non molto tempo dopo Vlada, il camionista protagonista del film, consegna il suo carico misterioso a degli uomini armati che sorvegliano un lugubre deposito. Quando, dalla finestra del quartier generale, cercherà di capire che cosa sono quei sacchi estratti dal suo camion e direttamente seppelliti in profonde buche non vedrà abbastanza bene per farsi un’idea. La conferma dei peggiori sospetti arriva solo un bel po’ dopo, quando il fetore di morte sconvolge l’espressione e lo stomaco di Vlada impegnato nella pulizia del furgone. Non si saprà mai se si tratta dei civili di etnia albanese che in quelle settimane vennero massacrati in Kossovo, ma è l’interrogazione, potente anche perché non definita fino in fondo, che informa la visione.

Teret è un film che assegna allo spettatore un ruolo attivo, che gli chiede di stabilire nessi e formulare ipotesi su quanto sta vedendo. Per quanto sia pienamente di finzione, il film si confronta in modo molto interessante con la realtà, con le sue discontinuità, con la sua ineliminabile casualità. L’incontro con un ragazzo che estorce un passaggio a Vlada si risolve in pochi gesti che lasciano un segno profondo nel protagonista.

Una stretta di mano di arrivederci che nelle mani di uno sceneggiatore si sarebbe trasformata in un gancio narrativo destinata a risolvere il finale, qui è un’uscita di scena definitiva, benché arricchita di un lascito prezioso. L’epilogo del film – positivo nell’apertura al futuro – vedrà Vlada assumersi le responsabilità delle sue azioni e tentare di ricostruire il rapporto con il figlio. E qui, chi vuole può vederci una metafora della transizione iugoslava e chi invece preferisce fermarsi alla superficie apprezzare un movimento di consapevolezza di sé e del proprio ruolo paterno da parte di un uomo fino a quel momento molto distante e perso.

Un’incertezza governata benissimo dal poco più che trentenne Glavonic che al suo primo lungometraggio di finzione dopo un paio di fortunati documentari si annuncia un autore all’altezza dell’impegnativo obiettivo che ha deciso di perseguire e allo stesso tempo abbastanza libero per trovare nel confronto con il reale soluzioni espressive molto felici. Un autore da tenere d’occhio.