È durato «poche ore» il sequestro del premier libico Ali Zeidan, secondo il ministro degli esteri Mohamed Abdelaziz che, ieri mattina, non ha chiarito «le circostanze della sua liberazione». Poco prima, il portavoce del governo aveva precisato che il premier «era stato liberato e non rilasciato» e forse di un probabile intervento di polizia. Il premier libico è stato prelevato a Tripoli da un gruppo di uomini armati mentre lasciava l’hotel Corinthia, dove risiede: «Il capo del governo di transizione, Ali Zeidan, è stato sequestrato all’alba di giovedì e portato in un luogo sconosciuto, per ignote ragioni, da un gruppo di uomini probabilmente ex ribelli», ha fatto sapere il governo. Subito dopo, si è diffusa la voce che Zeidan fosse in un hotel della capitale, nelle mani di un nutrito numero di uomini armati. Il Consiglio dei ministri, presieduto dal vicepremier Abdel Salam al Qadi, si è riunito d’urgenza.

Poco dopo, la «Camera dei rivoluzionari di Libia» – milizia di ex ribelli che dipende dal ministero dell’Interno -, ha rivendicato il rapimento, precisando che Zeidan veniva trattato bene. Un portavoce del gruppo ha spiegato il motivo dell’«arresto»: le dichiarazioni del Segretario di stato Usa, John Kerry, secondo il quale il governo libico sarebbe stato informato della cattura del presunto capo di al Qaeda, Abu Anas al-Liby, avvenuta in pieno giorno a Tripoli da parte delle forze speciali Usa, sabato scorso. Anche un altro gruppo di ex ribelli, la «Cellula delle operazioni di Tripoli» (sempre a libro paga del governo), ha rivendicato il rapimento del premier, definendolo «un arresto avvenuto in base al codice penale libico per ordine della Procura generale». Il ministero della Giustizia ha però smentito. Quello degli Interni ha invece confermato che, verso il premier, c’era un mandato del Dipartimento anticrimine per reati contro l’ordine pubblico e la corruzione. Recentemente, il Congresso libico, la più alta autorità politica del paese, ha dato l’incarico alla «Cellula» di mantenere l’ordine nella capitale. Dopo il rapimento di Abu Anas-Al Lybi, questa milizia ha emesso un comunicato in cui ha dato conto dello «stato di massima allerta di fronte agli attentati contro la sovranità del paese da parte dei servizi segreti stranieri». Il Congresso libico ha definito un «sequestro» l’operazione di extraordinary rendition Usa e ha chiesto a Washington di consegnargli immediatamente Abu Anas, ora detenuto su una nave militare Usa di stanza nel Mediterraneo. Le testimonianze dei famigliari del sequestrato hanno chiamato in causa la presenza libica nel rapimento. I movimenti islamici hanno alzato la voce, facendo valere il loro ruolo nella caduta di Gheddafi, da febbraio a ottobre del 2011, grazie soprattutto all’intervento aereo della Nato. Zeidan ha invece dichiarato che la vicenda non avrebbe incrinato le relazioni con gli Stati uniti.

Ieri, dopo il sequestro, gli Usa hanno subito affermato di essere pronti a intervenire se richiesti dal governo. Qualche giorno fa, hanno annunciato il trasferimento di centinaia di marine dalla Spagna alla base italiana di Sigonella (Sicilia). In Italia il presidente del consiglio Letta ha chiesto «un pronto ristabilimento della legalità nel Paese» e il ministro della Difesa Mario Mauro ha convocato sulla crisi una riunione con i vertici militari.
A due anni dal linciaggio di Gheddafi, la Libia è sempre più ostaggio della guerra per bande. I gruppi islamici radicali, perseguiti in passato dal Colonnello libico, sono rientrati in patria per combattere a fianco degli «insorti», acquistando sempre più armi e potere. La Libia si sta disintegrando. A giugno, la regione orientale della Cirenaica, dove più alta è la presenza di milizie radicali islamiche, che rispondono agli emiri locali, ha dichiarato «l’indipendenza e l’autonomia». A settembre, la storica zona di Fezzan (nel sud-ovest del paese) si è autoproclamata provincia autonoma. I capi delle tribù locali hanno affermato di aver eletto un loro presidente e che il compito di difendere i confini e i giacimenti di petrolio spetterà a un comandante della regione. Ali Zeidan, 63 anni, è premier da un anno. Ha vissuto trent’anni in Svizzera e prima è stato ambasciatore di Gheddafi. È stato l’inviato in Europa per il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) e ha svolto un grande ruolo nel convincere la Francia a intervenire in Libia. Per gli occidentali che lo hanno appoggiato, è l’uomo adatto a contenere la «somalizzazione» del territorio e ad integrare progressivamente le milizie. Quando si è imposto come premier sul candidato del Partito giustizia e Costruzione (i locali Fratelli musulmani), ha promesso di assumere anche le richieste della Fratellanza. Le rivalità con questi ultimi sono però tornate prepotentemente in campo con un voto in Assemblea che ne ha chiesto la sfiducia.