Il video con cui l’Ocse presenta sul proprio canale youtube la seconda edizione del Global Plastics Outlook ha un titolo significativo: Can we reduce the environmental impact of plastics?. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (un’organizzazione internazionale di studi economici per i Paesi membri, che sono 36 Paesi sviluppati, tra cui l’Italia) si chiede se possiamo ridurre l’impatto ambientale della plastica, quando basterebbe eliminare le parole al centro della frase per arrivare al dunque, all’unica domanda sensata nel 2022: possiamo ridurre la plastica?

LA PLASTICA E’ SEMPRE DI PIU’. I dati sulla produzione di plastica rilasciati dall’Ocse a fine febbraio confermano l’immersione globale in un modello consumistico capace di permeare ogni contesto: a livello globale, la produzione annuale di plastiche è raddoppiata, passando da 234 milioni di tonnellate (Mt) nel 2000 a 460 Mt nel 2019. Le materie plastiche contribuiscono al 3,4% delle emissioni globali di gas serra durante il loro ciclo di vita: nel 2019, la plastica ha generato 1,8 Gigatonnellate (Gt) di gas serra, il 90% delle quali proveniente dalla produzione che è legata alla conversione di combustibili fossili.

I MAGGIORI UTILIZZATORI DI PLASTICA sono i Paesi dell’Ocse e la Cina (due terzi della produzione globale) e i settori che ne consumano di più sono quelli dell’imballaggio (31%), delle costruzioni (17%) e dei trasporti (12%). Quasi due terzi di tutti i rifiuti di plastica provengono da applicazioni e oggetti che hanno una durata di vita inferiore a cinque anni. In particolare questo aspetto riguarda imballaggi (40%), prodotti di consumo (12%) e tessili (11%).

USA E GETTA. I RIFIUTI DI PLASTICA sono più che raddoppiati, da 156 Mt nel 2000 a 353 Mt nel 2019. Solo il 9% dei rifiuti di plastica è stato riciclato, mentre il 19% è stato incenerito e quasi il 50% è andato nelle discariche sanitarie. Il restante 22% è stato smaltito in discariche incontrollate, bruciato in fosse aperte o disperso nell’ambiente. La cattiva gestione dei rifiuti plastici è la principale fonte di perdite di macroplastica. Solo nel 2019, 22 Mt di materiali plastici sono stati dispersi nell’ambiente. Le macroplastiche rappresentano l’88% delle perdite di plastica e derivano principalmente da una raccolta e uno smaltimento inadeguati. Poi ci sono le microplastiche, polimeri con un diametro inferiore a 5 millimetri, che rappresentano il restante 12%. Provengono da fonti come l’abrasione dei pneumatici, l’usura dei freni o il lavaggio dei tessuti.

C’E’ TROPPA PLASTICA IN MARE. Il nostro modello di produzione e consumo fa sì che scorte significative di plastica si siano accumulate negli ambienti acquatici, con 109 milioni di tonnellate (Mt) di plastica nei fiumi e 30 Mt nell’oceano. Solo nel 2019, ulteriori 6,1 Mt di rifiuti di plastica sono finiti nei fiumi, nei laghi e nell’oceano. Questo implica che anche nei prossimi decenni questi rifiuti continueranno a riversarsi nell’oceano, anche se la percentuale di rifiuti di plastica mal gestiti fosse significativamente ridotta. La pulizia di queste plastiche, spiega l’Ocse, «sta diventando ogni anno più difficile e costosa, poiché la plastica si frammenta in particelle sempre più piccole». La conseguenza di questo sversamento è un’alterazione degli ecosistemi marini e terrestri, che pone a rischio anche quei mezzi di sussistenza umani che dipendono dall’integrità di tali ambienti, come il turismo e la pesca.

CHE FARE? NEI POLICY HIGHLIGHTS che accompagnano la pubblicazione, l’Ocse offre ai Paesi membri alcune possibile linee d’intervento: si sostiene l’importanza di sviluppare i mercati delle plastiche riciclate, combinando politiche di spinta e trazione, perché anche se la produzione globale di plastiche secondarie da riciclo è più che quadruplicata negli ultimi due decenni, «esse sono ancora solo il 6% della materia prima totale». Alcuni Paesi, sostiene l’analisi, «hanno rafforzato con successo i loro mercati spingendo l’offerta di plastiche secondarie – per esempio, attraverso schemi di responsabilità estesa del produttore – e tirando la domanda attraverso obiettivi di contenuto riciclato. Il recente disaccoppiamento dei prezzi per il polietilene tereftalato (Pet) primario e secondario in Europa e la crescente innovazione nelle tecnologie di riciclaggio sono segni positivi che la combinazione di queste politiche sta funzionando». Un’altra indicazione riguarda la creazione di incentivi per il riciclaggio e per migliorare lo smistamento alla fonte: le misure richieste includono tasse sulle discariche e sull’incenerimento e deposito cauzionale per gli imballaggi monouso.

L’OCSE SUGGERISCE AI PAESI MEMBRI di «rafforzare l’ambizione delle politiche pubbliche nazionali»: un inventario dei principali strumenti normativi ed economici sviluppati suggerisce che l’attuale panorama politico sulla plastica è frammentato e può essere rafforzato. Ad esempio, strumenti come le tasse sulla plastica e gli obiettivi di contenuto riciclato possono creare incentivi finanziari per promuovere la circolarità. Il loro impatto potrebbe essere notevolmente migliorato estendendoli a più tipi di prodotti e a più paesi. Questo passaggio è fondamentale, perché è l’unico in cui si fa riferimento alla possibilità di ridurre produzione e consumo.

«L’UNICO MODO DI ANDARE AL NOCCIOLO del problema», come suggeriscono Elisa Nicoli e Chiara Spadaro nel libro Plastica addio (Altreconomia). Dobbiamo, scrivono «produrre meno plastica: possibilmente non produrne affatto. Per questo ai gesti individuali si devono poi affiancare una volontà politica e una produzione industriale coerente: così la plastica avrà i giorni contati». Eppure la vicenda surreale della plastic tax italiana, descritta per la prima volta nella legge di Bilancio 2020 e non ancora in vigore (lo sarà dal 2023), suggerisce che in Italia non sia ancora chiaro, come spiega l’Ocse, che «le politiche pubbliche sono una leva fondamentale per ridurre le conseguenze ambientali dell’uso della plastica».