Da che la specie umana ha vita, ogni perdita dei nostri cari è accompagnata da gesti che ritualizzano l’espressione dei sentimenti, e anche da questa prospettiva, la mutilazione dei rituali del lutto è una strage emotiva che si aggiunge. L’impossibilità di salutare il morente, di dare sepoltura al suo corpo ricapitolandone la memoria, non è un effetto collaterale del coronavirus (come di altre epidemie) ma una delle sue più amare e traumatiche conseguenze.
L’impossibilità di seppellire i morti – nella tradizione cattolica la «settima opera di misericordia corporale» – rende esponenziale l’angoscia, che si nutre della mancata possibilità di onorare i defunti. Come per i morti di guerre da noi lontane, come per i naufraghi nei mari a noi vicini, un taglio interviene nell’unica forma di vita che ci rimane durante e dopo il lutto, investendo la consistenza anche simbolica della vita.

Da Freud a Jung a Hadot
Freud, per la prima volta in un saggio del 1915, Noi e la morte, ci ricorda come i nostri pensieri più remoti tendano a negare la morte: proprio perciò il lavoro del lutto è tanto difficile, perché comporta un passaggio dal rifiuto di credere che la morte sia reale, alla sua accettazione e dunque al distacco dell’investimento libidico sulla persona amata e alla possibilità di dirottare altrove quell’investimento.

Quando il lavoro del lutto è disturbato, quando non riesce, l’esito è quella speciale forma di depressione la cui genesi e analisi è teorizzata, ancora nel 1915, in uno dei saggi più famosi di Freud, Lutto e melanconia.
Dura presa d’atto, persino percettiva, della «reale» scomparsa, il lutto ha bisogno del conforto degli altri e traccia, più di quanto non compiano le altre forme rituali, il percorso di un «passaggio» all’universo simbolico: dal «furore» di ciò che irrompe incontrollato, avrebbe detto de Martino, si passa a quella cultura che è la nostra seconda natura, e in cui si perpetua la nostra sopravvivenza.

Jung, in Anima e morte e Sul rinascere (due saggi scritti tra il 1934 e il 1950), pensa il lutto come transito alla vita «rinata», alla realtà del simbolo come orientamento, come senso dello stesso vivere appetitivo (sessualità e lavoro), ripetendo, a secoli di distanza e senza conoscerne i testi, l’esercizio della morte e dell’attimo presente nella antica filosofia greco-romana, intesa come pratica quotidiana del vivere.

Pierre Hadot, pioniere nella nostra epoca della valenza di esercizio spirituale e mondano della filosofia antica, ci ha mostrato come la consapevolezza della necessità della relativizzazione e del distacco dall’egocentrismo, possa aprire un orizzonte della vita insospettatamente più esteso. A proposito del lavoro del lutto, James Hillman e Sonu Shamdasani nel Lamento dei morti (Bollati Boringhieri, 2014) sostengono che Jung ha posto al centro della sua opera la nostra dimenticanza dei morti e, soprattutto nel Libro Rosso, ha sostenuto che la modernità ha dimenticato il lavoro del lutto. La sua importanza, per Jung, sta nel fatto che il lutto – come credevano gli antiche egizi – «apre la porta o la bocca ai morti». Sebbene il legame sia indiretto e inconsapevole, la intuizione junghiana secondo cui «Per vederci chiaro ci è necessario il rigore della morte», trova la sua più ampia e approfondita elaborazione nel libro di R. P. Harrison, Il dominio dei morti (Fazi 2004), che mostra attraverso i luoghi e le pratiche di sepoltura come i defunti abitino il nostro mondo, lo umanizzino costruendo la forma del tempo, e dunque influenzando il futuro. È dai sepolcri (sui quali solo l’abuso scolastico ci impedisce di apprezzare ciò che ha scritto Foscolo) che si riconosce la relazione di negoziato e di conflitto tra vivi e morti fondativa della civiltà.

Si potrebbe pensare che ciò che conta davvero è il lutto interiorizzato, ma prudenza vorrebbe che il valore di usanze tanto radicate in tutta la storia delle culture non venga presuntuosamente sminuito. Un nostro grande contemporaneo, Roland Barthes, così scriveva in Dove lei non è (Einaudi 2010), il diario del dolore per la morte della madre: «Tutte le società sagge hanno prescritto e codificato l’esteriorizzazione del lutto. Malessere della nostra, per via del fatto che essa nega il lutto».

Per una sorta di contrappasso storico, la pandemia ci fa tragicamente sperimentare, privandoci della possibilità del rito, religioso o civile che sia, quale amputazione della cura del lutto sia intrinseca alla privazione coatta delle esequie partecipate da parenti, amici e conoscenti.

Sulle tracce di Recamier
La citazione di Barthes è posta in exergo a un libro a più voci, curato dalla psichiatra e psicoanalista Barbara Massimilla, La perdita. Lutto e trasformazioni (Vivarium 2011), il cui tema centrale, rimodulato dai diversi coautori, è ripreso dal capitolo «Primordi e sviluppo del lutto originario» del libro di Paul Claude Racamier, Il genio delle origini (Cortina, 1993): è «il processo di attraversamento e perdita, sempre all’opera nelle diverse età della vita» che, commenta Massimilla, «inizia quando il bambino volgerà le spalle alla madre e accetterà di perderla, avviando così la perdita dell’illusione di onnipotenza e appartenenza totale all’unità duale», stabilita dal bambino con la persona che gli ha dato la vita .«Tale iniziazione al lutto, nell’arco dell’esistenza, rifornirebbe la psiche di capacità specifiche, essenziali al confronto con la realtà della perdita». La possibilità di elaborazione è precaria anche quando si passa attraverso l’accompagnamento del morente e la cura delle forme dell’addio, perché tutta la nostra storia psichica reagisce a questo dramma in modi condizionati dai vissuti dei lutti, reali e simbolici, precedenti.

Nell’assenza percettiva dei corpi dei defunti e dei gesti del commiato, il distacco si fa più amaro e le ombre dei sensi di colpa minacciano di farsi imponenti, riproducendo psichicamente la difficoltà di accettare una scomparsa che i nostri sensi non hanno testimoniato, e che la compagnia del comune cordoglio non ha consolato.