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Séon, stilla colore dalla colonna marmorea

Séon, stilla colore dalla colonna marmoreaAlexandre Séon, "Le Retour", 1913, Saint-Étienne, Musée d’Art Moderne, Getty Images

Riscoperte nell'arte: Alexandre Séon Fra i «pittori dell’anima», simbolisti e rosacrociani, coniugò la solenne linearità di Puvis de Chavannes col 'pointillé' di Seurat, intimo amico. Il suo penetrante studioso è Jean-David Jumeau-Lafond

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 18 dicembre 2022
Pierre Puvis de Chavannes, “Ritratto di Alexandre Séon”, 1886

«Sempre misterioso: parla solo con Séon»: così, sul chiudersi del 1889, Albert Dubois-Pillet a proposito di Seurat, isolatosi nelle ricerche – morirà un anno e mezzo dopo. Alexandre Séon era stato compagno di studi di Seurat all’École des Beaux-Arts, allievi, alla fine degli anni settanta, di un antico allievo di Ingres, Henri Lehmann. Nel 1880, deluso dall’insegnamento accademico, aveva voluto incontrare Puvis de Chavannes, che diventerà per lui, come ha scritto Jean-David Jumeau-Lafond, «le “phare” idéal, au sens baudelairien du terme».
Una recente visita a Jumeau-Lafond, l’innamorato, penetrante conoscitore del simbolismo francese, nel suo prezioso covo parigino verso rue de la Pompe (Sedicesimo) – intensa l’impressione ricevuta da una serie di tavolette paesaggistiche di Alex. Séon, come si firmava –, mi ha suggerito un’apertura italiana sul più puro e sottile fra i «peintres de l’âme». Jumeau-Lafond ne è il grande interprete, lo mise in bella luce nella memorabile mostra su questi artisti da lui curata nel 1999, prima di dedicargli una monografica a Quimper (e Valencia) nel 2015-’16, di cui resta un catalogo (Silvana Editoriale) ricchissimo e veramente d’autore, la cui epigrafe recita, da Séon, «je veux l’Idéal avec la science pour guide».
Un pittore che seppe conciliare, con rigoroso controllo, la maestria disegnativa della più eletta tradizione classicista sboccata in Puvis e la mescolanza ottica, a base scientifica, di Seurat: questo in formula, ma Jumeau-Lafond suggerisce, con una certa insistenza, di aggirare la formula, per mettersi in grado di cogliere appieno la stregata singolarità di Séon. Fra i suoi compagni di fede è il meno tipico: non vi si trova «né la pittoricità instancabilmente crepuscolare di un Osbert (…), né il fantasticare verlainien di Aman-Jean, né le precise magie di un Armand Point, fervente del Rinascimento (…), tanto meno l’ispirazione cosmica di uno Chabas o l’angolosità gotica di uno Schwabe».
Si immagina Séon come uno stilita, immobile sulla colonna marmorea, mentre in basso il mondo dell’arte si agita, corre, e l’Amore agonizza, secondo il titolo di uno strepitoso disegno del 1886. Probo quant’altri mai, con in tasca sempre, quasi apotropaica, una fotografia della Monna Lisa – Leonardo, insieme a Poussin, fu, tra gli antichi, il preferito –, sprofondato nel suo idealismo, che epura al massimo grado ma non rinnega il reale, tenuto amorosamente da base come prova un croquis-journal di recente riermerso, Alexandre Séon, insieme ai suoi sodali, ha subìto una specie di damnatio memoriae almeno fino agli anni sessanta del Novecento, quando il Simbolismo, già espulso dal rigido canone modernista, cominciò a essere riscoperto. Ma anche in quest’area, i «pittori dell’anima», tacciati di ‘letterario’, sono coloro che più hanno faticato a riemergere, indisponibili punto, al contrario dei colleghi di area sintetista e neo-impressionista, a concedere in chiave progressiva: il Novecento delle avanguardie è per Séon e compagni una barriera invalicabile, risulta perciò di sommo interesse seguire la loro attività fin dentro il nuovo secolo, visitarli nello spaesamento anacronistico, alle volte struggente, che forse può dire qualcosa alla sensibilità sincronica e antologica dei nostri giorni. Non che ai loro giorni gli idealisti non avessero penato, stretti fra il passato che non passa, i pompiers, e il futuro che avanza, le varie forme del post-impressionismo. Operavano, comunque, all’interno di uno statuto, garante, sopra tutti, il padre nobile Puvis de Chavannes.
In una foto che lo ritrae al cavalletto verso i quindici anni, Séon, lo sguardo di chi non si distoglie, ha già la postura del maestro. Era nato all’inizio del 1855 a Chazelles-sur-Lyon, nella piana del Forez, «presso l’antica città di Lione, dalla parte del sole calante», come recita L’Astrea di Honore d’Urfé: le magie della campagna, dei ripidi paesaggi vulcanici, del fiume Coise, delle leggende locali, accendono l’immaginazione del ragazzo Alex. La sua natura sognante, astratta, trova un primo riscontro figurativo nel classicismo mistico dei pittori lionesi, nazareni di Francia, che egli scopre al museo, proprio a Lione, durante gli anni di formazione con Jean-Baptiste Danguin, tardo ingresque anche lui, i cui bulini lo introdussero del resto ai capolavori del Rinascimento italiano. Non bisogna sottovalutare questi primi passi: l’incontro, soprattutto, con la sospesa e spoglia «poesia dell’anima» di Louis Janmot, di cui Séon si ricorderà ancora in un dipinto tardo, 1912, Le Récit.
Buona la preparazione perché vi si possano incidere, nel momento fatidico, gli insegnamenti di un altro, ben più grande lionese, Puvis de Chavannes, del quale Séon sarà discepolo (attesta Jules Laforgue), collaborando con lui ai décors del museo di Lione, del Panthéon e della Sorbona. Come indica l’affettuoso epistolario, resta al suo seguito per due lustri, dal 1881 al 1891, fino a che non stringe, cioè, con il Sâr Joséphin Péladan, altro lionese, figura indigesta a Puvis – vedremo.
Maestro adorato, Puvis non rappresentò per Séon un modello senza condizioni. Lo spiccato temperamento portava il giovane a battere strade diverse. La gestualità lenta e solenne, la sottile euritmica, il fare grande di Chavannes lo incantavano, ma non al punto da condividere le sue espressioni atone e, soprattutto, le tinte pallide e gessose, cui contrapponeva un più moderno gusto del colore, maturato nell’intimità con il quasi coetaneo (più giovane) Seurat – Seurat che del resto, a sua volta, nutriva il culto di Puvis. Non è il puramente ottico che interessava a Séon: rigettava la teoria dei complementari e fece un uso parziale e dosato della divisione dei toni. L’opera più emblematica in senso pointilliste è l’arcano Désespoir de la chimère (1890), collezione Lucile Audouy. L’opzione simbolista, che si fa decisa negli anni novanta, detta le condizioni, e giustifica il ricorso, come nel tardo Seurat, alle teorie di Charles Henry, che implicano l’orientazione delle linee e la selezione dei colori in base agli stati d’animo che si intende suscitare.
Il dramma professionale di Séon è non essersi potuto esprimere compiutamente nella decorazione monumentale, suo proprium secondo il dettame di Puvis, che, pur non operando a fresco ma con grandi tele poi montate in situ, si rifaceva alla solenne tradizione murale del Medioevo e del Rinascimento. Sostenuto dal maestro, il pittore ottenne, all’inizio del 1885, di decorare una sala della mairie di Courbevoie (oltre l’attuale Défense), terminata cinque anni più tardi. Le ore del vivere, le virtù morali, le stagioni: lo spirito di ricerca, vòlto all’utilizzo indipendente della tecnica seuratiana, piegata all’espressione simbolica dei sentimenti, trova il suo apice nei quattro pannelli del soffitto, le Saisons, con la loro «dégradation perspective du ton», che Séon teorizzerà in un Traité di lì a qualche anno. Un sincretismo stilistico, già sostenuto da colui che diventerà il suo critico di riferimento, Alphonse Germain, e oggi delucidato, con finezza di analisi, da Jumeau-Lafond, che parla di «neo-impressionismo idealista».
A parte due commissioni private (1904, 1911), l’esperienza murale di Séon si fermò sul nascere: a Courbevoie. Per i pittori idealisti il muro e l’impegno pubblico connesso (che nel nostro artista riveste una spiccata valenza sociale) rappresentavano il massimo cui potessero aspirare. Così si spiega il risentimento nutrito tutta la vita da Séon verso le istituzioni, che non corrisposero alla purezza dei suoi ideali. Perché fu tagliato fuori?
Deve avergli nuociuto non poco la stretta vicinanza, dall’inizio degli anni novanta, con l’ingombrante Péladan, che giudicava il pittore – ma forzando – il più in linea con le sue teorie estetiche. Accanto al Sâr e all’Arconte, suo mecenate, Antoine de La Rochefoucauld, Séon fu di fatto uno dei fondatori del Salon de la Rose+Croix. Delle sei edizioni, tenutesi dal 1892 al 1897 alla Galerie Durand-Ruel, nei pressi di Champ-de-Mars, egli parteciperà a cinque, presentandovi non meno di un centinaio di opere, fra le quali diverse delle sue più importanti: Jeanne d’Arc, la Chimère, La Passante, Le Poète, che si slancia nella notte a raccogliere le stelle, La Sirène, Lamentation d’Orphée. Nel periodo 1890-’92 illustrò una decina dei romanzi ‘apocalittici’ del Sâr appartenenti al ciclo Décadence latine.
Jumeau-Lafond ha puntualizzato la posizione di Séon all’interno del movimento cattolico-esoterico R+C, le cui scelte estetiche, alla luce dei nuovi studî, appaiono ben più malleabili e inclusive di quanto non suggerisca l’intransigenza degli assunti ideologici. La divaricazione tra La Rochefoucauld, propenso al neo-impressionismo, e Péladan, di gusti più tradizionali, impostati sul canone rinascimentale, non avrebbe condotto alla rottura se non fossero intervenute ragioni personali. Inoltre una migliore intelligenza storica del fenomeno Rosacroce gli annette ormai valori di ricerca, e formale e sociale, che la vecchia critica modernista era lungi dal considerare: Jumeau-Lafond vede per esempio nella strategia pubblicitaria del Sâr un anticipo sulle modalità militanti delle avanguardie novecentesche.

«Toga violetta… occhio sognante… barba nera rigida… profilo assiro»: il clamoroso ritratto di Péladan (1891), qui nella descrizione di Marcel Schwob, sembrerebbe implicare in Séon una totale sottomissione al Gran Maestro. Nei fatti è meno che esigua, e quasi tutta di campo grafico, la parte della sua opera intrinseca all’immaginario babilonese e alle strette opzioni di stile patrocinati dal Sâr. Séon era troppo pittore, e pittore nel segno di Chavannes, per aderire. Rispondendo, nel 1892, alla celebre inchiesta della rivista «La Justice» sulla «reazione idealista» della fin-de-siècle, «l’Arte mistica – scrisse – è espressione dell’Idea e dell’Anima. Ma… che questo non impedisca alla pittura di essere pittura: plastica e non letteratura».
In fin dei conti uno dei meriti maggiori di Péladan nei confronti di Séon è avergli fatto conoscere, nel 1890, gli incanti dell’Île de Brehat, in Bretagna, a ovest di Saint-Malo. Installatosi in una simplicity house nel luogo detto «Roc’h Hervé», Séon fece di questo arcipelago dalle rocce rosse la fonte di ispirazione dei suoi piccoli paesaggi su legno. Un supporto e un formato suggeritigli dai celebri croquetons di Seurat, fra i quali Séon possedeva uno degli studî per La Grande Jatte, che gli era stato rimesso dopo la morte dell’amico? C’è da crederlo.
I paesaggi di Brehat! Un a-parte segreto nella produzione di Séon, non più di trenta numeri, la cui datazione tarda (i primi, all’inizio del Novecento) nulla toglie al loro pungente interesse. Escluso forse Vallotton, si era mai vista nel paesaggio una simile depurazione del reale, la griglia grafica tesissima, impreziosita a punta di pennello, i colori sognati, spolverati da tracce remote di pointillisme?
Senza considerare che il mare di Brehat, già a partire dalla Chimère (si è detto, del ’90), divenne il fondale per alcuni dei suoi capolavori di figura, fino all’opera-congedo, Le Retour (museo di Saint-Étienne), licenziata poco prima della Grande Guerra: tavolozza fredda, cielo malva appena striato di giallo; le linee dinamogeniche che dicono ‘melanconia’; il composto strazio della donna come una statua antica: dall’alto della collina piange sulle rovine della casa in riva al mare, che le fu cara.
Incorpora la desolazione di Séon dinanzi al crollo dei suoi valori morali ed estetici: la guerra lo condurrà a una forma di nevrastenia; morì il 5 maggio 1917. Resta questa «figura di tristezza, una presenza particolarmente ossessionante» (Jumeau-Lafond), che fa da fulcro a un saggio fra i più alti, fuori tempo massimo, del simbolismo delle linee e dei colori.

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