Sergio Oksman non ha rapporti con il padre da oltre dieci anni. Nel 2013 lo incontra nella sua città natale, a San Paolo, per strappargli una promessa: che l’anno dopo avrebbero guardato insieme ogni singola partita dei Mondiali di Calcio che si sono tenuti in Brasile.
Padre e figlio non vanno allo stadio: guardano le partite a casa, sul posto di lavoro del genitore, nei bar. Per strada c’è silenzio, ogni tanto un occasionale boato di contentezza che scandisce i gol del Brasile. Così, nel corso del documentario di Oksman O Futebol – che ha vinto il concorso internazionale di lungometraggi del Festival dei Popoli – i due hanno occasione non tanto di «ricucire» il rapporto tra loro, ma di gettare le basi per una sua esistenza. Nella periferia lontana dagli stadi e dalle folle le loro vite, girando intorno al calcio, iniziano di nuovo ad avere un reciproco significato.

Sempre il calcio è ciò che dà un senso alle vite di altri due «personaggi»: Adlan e Terroriste, i protagonisti di Babor Casanova di Karim Sayad, vincitore della «Targa Gian Paolo Paoli» al miglior film etno-antropologico. Tra le strade di Sacrè Coeur, quartiere di Algeri, Adlan e Terroriste ciondolano con i loro amici prendendo qualche droga, parlando rigorosamente solo della loro squadra del cuore – il Mouloudia – e facendo i parcheggiatori abusivi per cercare di racimolare abbastanza soldi per vedere la partita nel weekend. Il giorno in cui finalmente si gioca è ciò verso cui sono orientate tutte le loro speranze e aspettative, così come i cori per il Mouloudia oltre ad incitare la squadra raccontano il sogno dei tifosi di attraversare il mare per raggiungere «la Sicilia o la Sardegna, l’Italia o la Francia»: qualunque posto lontano dall’Algeria.

Anche per i ragazzi di Loro di Napoli di Pierfrancesco Li Donni – premio Cinemaitaliano.info al miglior film italiano – il calcio è un mezzo: i giocatori dell’Afronapoli United potranno accedere ai campionati professionistici solo nel momento in cui sconfiggeranno la burocrazia che li vuole immigrati, apolidi o senza permesso di soggiorno, mentre le loro vite sono già quelle di ragazzi napoletani.

A vincere il concorso internazionale di mediometarggi è invece Une partie de nous s’est endormie della regista francese Marie Moreau, che per le strade di Avignone segue Djilali, uomo di origine marocchina che si dichiara senzatetto pur avendo un appartamento il cui solo scopo, dice, è proteggerlo «dal freddo d’inverno e dal caldo d’estate». Djilali si presenta alla regista come Alias, perché nella vita ha assunto talmente tante identità da non poterle ricordare tutte. A Ceuta, per poter attraversare lo stretto ed entrare in Spagna è stato un ebreo israeliano, prendendo in prestito l’identità di un amico e vicino di cella durante il suo soggiorno di dieci anni in carcere. Subito dopo è stato Mustafa, un palestinese in cerca di asilo: «lui me lo sono completamente inventato», ricorda. È impossibile distinguere le menzogne dalla realtà, e conta solo camminare come in un sogno tra le strade deserte di Avignone – la città e i suoi vicoli in cui Djilali dice di sentirsi veramente a casa.
Il protagonista di Une partie de nous sa però che in ogni bugia ci deve essere «un po’ di verità», altrimenti si rischia di dimenticare e venire scoperti o peggio, di impazzire. È così che Marie Moreau ci svela almeno una parte della sua anima tormentata: di alcolizzato, drogato, ex carcerato e poeta