Per 1.400 famiglie argentine senza tetto, Guernica non evocherà più d’ora in poi solo l’opera di Picasso ispirata al duro bombardamento della città dei Paesi Baschi: richiamerà anche la ferita inferta nell’omonimo comune della provincia di Buenos Aires nei cui dintorni era sorto un accampamento di circa 100 ettari in seguito a una serie di occupazioni di terra, diventato teatro di un’ennesima violenza contro i più poveri.

Quelli a cui era stato detto, all’inizio della pandemia, di restare a casa anche se un tetto non ce l’avevano, salvo poi, quando ne hanno trovato uno, darlo alle fiamme.

Giovedì, dopo tre mesi di negoziati tra il governo di Buenos Aires, in mano al Frente de todos che sostiene il presidente Fernández, e i rappresentanti dell’occupazione, è arrivato lo sgombero da parte di oltre 4.000 agenti delle forze dell’ordine, che si sono fatti strada lanciando lacrimogeni e sparando proiettili di gomma, per poi arrestare almeno 35 persone che si opponevano allo sfratto.

Quanto all’accampamento, la polizia non ha esitato a dargli fuoco, mentre il procuratore Juan Cruz Condomí Alcorta dichiarava tutto soddisfatto che l’operazione di sgombero era stata «eccellente», scattandosi un osceno selfie sullo sfondo delle baracche in fiamme e degli abitanti in fuga.

Secondo le autorità, gli oltre 3.000 abitanti dell’accampamento avrebbero usurpato un terreno di un’impresa immobiliaria, El Bellaco S.A., legata a Ricardo Cardelwood, membro onorario della Sociedad Rural argentina, benché questa non abbia mai dimostrato il titolo di proprietà. Tuttavia, il caso Guernica si è trasformato in breve in una disputa sulla proprietà privata, a prescindere dall’uso del terreno: se, cioè, farne un villaggio popolare oppure un campo da golf o un residence di lusso. E il governo peronista, tanto nazionale quanto locale, ha scelto da che parte schierarsi, calpestando il principio di Eva Perón, tanto caro al popolo argentino, che «dove c’è una necessità, nasce un diritto».

Ma, per l’immagine di Alberto Fernández, il caso Guernica ha rappresentato un duro colpo, come hanno indicato l’ondata di sdegno e le manifestazioni di protesta provocate dall’operazione di sgombero. Il dito è puntato in primo luogo contro il ministro della Sicurezza della provincia di Buenos Aires Sergio Berni, ex tenente colonnello ed ex carapintada – come sono stati chiamati i militari di estrema destra che si sollevarono ripetutamente contro i governi di Raúl Alfonsín e Carlos Menem – e che, fedele alla sua storia, si è fatto tristemente conoscere in Argentina per il suo curriculum repressivo, a cui non ha mancato di rendere onore anche durante la pandemia.
Ma a volerlo in quell’incarico è stato il governatore di Buenos Aires Axel Kicillof, uno che, come

evidenziato dal noto giornalista Carlos Aznárez, «dava lezioni di marxismo», a sua volta «protetto da un presidente che nel dicembre dello scorso anno diceva di voler governare per tutti» e che era stato votato dalla maggioranza di un popolo «disperato dopo quattro terribili anni di macrismo».

E la ferita è tanto più grave in quanto ciò che è andato in scena a Guernica è analogo a quanto è accaduto a Villa Mascardi, dove la mal chiamata giustizia ha ordinato lo sgombero di un’occupazione di terra da parte di una comunità mapuche, e a Entre Ríos, dove la stessa giustizia si è pronunciata contro il progetto Artigas, nato per iniziativa del Movimiento de Trabajadores Excluidos guidato da Juan Grabois, destinato alla produzione agroecologica su un terreno rivendicato illegittimamente dall’ex ministro macrista Luis Miguel Etchevehere e dai suoi fratelli.