Quando li vediamo scivolare su una tavola di legno nelle nostre città pensiamo alla California e ai cambiamenti generazionali. Quando accade con un giovane immigrato che, arrivato in Italia a 12 anni, scopre uno skatepark grazie a un amico italiano, meditiamo sull’integrazione e la solidarietà. A meno che, certo, una volta l’anno non ci si conceda una gita a Pontida con una bandana verde. Ma se poi il ragazzino marocchino, dreads e jeans stretti, diventa uno dei più forti skater in circolazione, intorno a lui si leva l’aurea del destinato, come se il fato l’avesse magicamente trasportato nel luogo giusto al momento giusto. Non è esattamente così, specialmente in un Paese in cui vige la Bossi Fini.

All’appuntamento Elmehdi Contaki ci racconta che il suo ritardo è dovuto a un controllo della polizia: è stato fermato e perquisito subito dopo aver salutato dei suoi connazionali. Non è facile fargli ricordare la lunga vicenda che è riuscito, almeno parzialmente, a dissolvere a forza di scellerati trick e ginocchia sbucciate: il ricongiungimento famigliare, il viaggio, la paura, la comunità minorile e sempre, sempre, l’incubo del permesso di soggiorno. Con un forte accento pesarese dice: «Capita che mi scada sempre all’inizio dell’estate, il momento in cui ci sono gli eventi più importanti, come tre anni fa che mi ero qualificato per un contest della Volcom a Copenaghen e, non avendo un contratto di lavoro, sono rimasto a casa». A parte questo, la tagliola di essere rispedito nel suo Paese d’origine incombe durante ogni colloquio di lavoro.

Alessandro Mari (1)

Aggiudicatosi il primo premio alla competizione di freestyle The JamBO e vincitore del Rail Master al Blast The Big One, a 22 anni, Elmo, come lo chiamano gli amici, riflette sulla sua storia con la voce rotta dall’emozione: «Cominciai con una tavola giocattolo insieme a Manuel, l’amico che mi accompagnò per la prima volta allo skatepark di Fano. Non avevo paura di nulla, possedevo solo tante energie negative da sfogare, era come se, con quello che stavo vivendo, rompermi l’osso del collo fosse il male minore. Lì vidi Marco Laschi (skater della scena italiana, ndr) fare delle cose incredibili. Decisi che volevo farle anch’io, in seguito anche Marco si accorse di me, tanto da regalarmi la mia prima tavola professionale, oltre a insegnarmi i primi movimenti e a portarmi alle sue gare». A condizionare la sua determinazione fu anche il dolore per la scomparsa di Manuel per una malattia, che fece riflettere Elmo sul dovere, comunque, di cercarsi una strada appagante, ma sempre sopra al suo skate: «Non ho potuto nemmeno salutarlo che ero già in comunità, ma sapevo che dovevo continuare per lui». L’irrequietezza, i problemi famigliari e una solerte assistente sociale, l’avevano infatti esiliato in una comunità minorile: «Sei solo, ed è difficile. Una volta da bambino sono scappato, ero senza giubbino, fuori nevicava, mi hanno ritrovato svenuto in un campo, in ipotermia. Evidentemente non era la mia ora».

Un altro motivo che spinge Elmo a dare il massimo è proprio non avere i mezzi economici per sostituire le tavole e comprare scarpe nuove (gli skater sanno quanto poco durano). Si prefigge l’obiettivo di uno sponsor, almeno per il materiale: «Il proprietario di un negozio di Fano che seguiva la scena degli skater vide che mi lanciavo dappertutto, insomma che ero il più stupido. Presto conquistai la mia prima tavola sponsorizzata».

In Italia non voleva venire, sente ancora l’eco dei paesaggi che lo circondavano e l’affetto di amici e famiglia: «All’improvviso ti ritrovi in un posto dove non conosci nessuno, senza parlare la lingua, in classe ero l’unico straniero, sapevo che i compagni mi prendevano in giro anche senza capire cosa dicevano». La piccola rivincita Elmo se la prende quando, fra il pubblico di un’importante gara di skate, ritrova uno di quei ragazzini che lo deridevano. «Lo skate è una cosa totalmente personale dove non ci sono regole né restrizioni, a guidarti è il carattere e il tuo stato d’animo. Quando sono incazzato tento le cose più difficili consapevole che potrò farmi male». Questo sport esige fantasia, volontà e un bel po’ di follia, in cambio di una maturità che bene si legge negli occhi di Elmo: «Appena ho conosciuto lo skate ho lasciato il calcio, mi piaceva ma fare sempre quello che diceva il mister per vincere, non era per me…». Il punto è che, anche nel contest più importante d’Italia, chi fa il trick bello e difficile, viene applaudito da tutti, avversari inclusi. È come se la competizione si manifestasse solo nel punteggio, non fra le persone.

Come per le BMX e il parkour, lo skate è una condizione esistenziale che sfrutta i freddi paesaggi urbani per mutarli in basi di aggregazione e contesti creativi: «Se hai 10 anni o 40, se sei un punkabbestia o un nerd, se salti 20 scale o lo usi solo per spostarti, lo skate rispecchia la tua personalità e allo stesso tempo unisce trasversalmente soggetti di una stessa comunità». Metallo e cemento, paradossalmente, diventano collanti per la diversità: «D’inverno, per esempio, andiamo a skeitare nel capannone di un nostro amico. È figlio di un industriale qui di Pesaro, ognuno ha messo quello che poteva per costruire le rampe».

foto di Laura Giammichele (1)

Elmo ora lavora in fabbrica, appena può si allena e si sente fortunato: «Penso tantissimo a cosa sarei diventato se non avessi avuto questa passione. Ha tirato fuori un lato di me che non conoscevo. Considera che spesso, quando in comunità rimanevo solo, l’unica cosa che mi veniva da fare era distruggere la stanza. A diciotto anni, uscito da lì, invece di far casini trascorrevo le giornate sullo skate. Non è poco».

Rari sono gli italiani che vivono di skate ma, forse, proprio il non essere alla mercede del mercato, permette a questa disciplina di imprimere con maggiore forza i suoi insegnamenti fondamentali: superare gli ostacoli e rialzarsi. Bello sarebbe che Elmo e tanti altri potessero farlo nella vita, senza le torture delle nostre leggi medievali.