Sono numerosi i segnali della crisi della democrazia nel mondo. Vi sono nazioni in cui essa, intesa come libera scelta dei propri rappresentanti e governanti, è esclusa per principio e per legge.

La sua instaurazione costituisce la speranza di minoranze attive, anche se perseguitate. Ove, invece, la democrazia è costituzionalmente prevista, come nel nostro paese, risulta indebolita e corre pericoli di ulteriore erosione.

Le ragioni sono molteplici, ma la principale sta nella concentrazione in poche mani di ricchezze prevalentemente finanziarie o alimentate dall’industria delle armi. Ne conseguono poteri che, attraverso la manipolazione dell’informazione, il finanziamento dei partiti, forme variegate di corruttela, stabiliscono politiche contrarie agli interessi e, non di rado, ai valori della maggioranza dei cittadini. Ne deriva la mediocrità della politica che si riflette sulle istituzioni allontanando i cittadini elettori.

Franklin Delano Roosevelt
«La libertà della democrazia non è sicura se il popolo tollera la crescita del potere privato al punto in cui diventa più forte del suo stesso stato democratico. E’ questo, nella sua essenza, il fascismo – la proprietà delle istituzioni nelle mani di un individuo, di un gruppo»

Affermava Franklin Delano Roosevelt: «La libertà della democrazia non è sicura se il popolo tollera la crescita del potere privato al punto in cui diventa più forte del suo stesso stato democratico. E’ questo, nella sua essenza, il fascismo – la proprietà delle istituzioni nelle mani di un individuo, di un gruppo». Occorre reagire. Prendiamo ad esempio l’Italia.

Il momento potrebbe essere adatto per mettere in pratica gli antidoti visto che i due principali partiti potenzialmente critici di questo stato di cose, il M5S e il Pd, hanno subito dei rivolgimenti interni tali da consentire un’inversione di rotta che renda prioritario l’impegno democratico.

Immaginiamo che Giuseppe Conte ed Elly Schlein, insieme con coloro che hanno sostenuto la loro ascesa nei rispettivi partiti, vogliano rivolgersi a quella maggioranza relativa di cittadini che, nei sondaggi di opinione, si dichiara estranea alla politica e che, in misura variabile ma crescente, diserta le urne.

La prima condizione per motivare e favorire la partecipazione democratica è la consapevolezza della gravità dell’involuzione in atto e – condizione essenziale – della corresponsabilità passata dei soggetti che ora vorrebbero porvi rimedio.

Per dirla con una battuta purtroppo non lontana dalla realtà, se chiedessimo a dieci passanti quali sono le forme più odiose di associazione umana, la maggioranza di essi risponderebbe: le reti di pedofilia, la criminalità organizzata e, buoni terzi, i partiti politici. Quei passanti sono maggiormente motivati ad occuparsi di pane e di pace che a loro mancano in misura crescente e a cui i partiti sembrano indifferenti.

Pur con questa consapevolezza, è la libertà, di cui ancora disponiamo, che può assicurarci un cambiamento. E, per quanto oggi degenerati ed indeboliti, l’esistenza e lo sviluppo di partiti di diverso orientamento politico costituiscono una condizione essenziale, un sine qua non, di ogni democrazia.

Con quali proposte, in quale ordine prioritario, un partito politico può presentarsi e, addirittura promuoversi, presso i cittadini potenzialmente elettori o, addirittura, militanti?

Il primo obiettivo non può che essere quello di restituire loro il diritto di scegliere i propri rappresentanti parlamentari, poco importa se attraverso il ritorno ad un sistema proporzionale o maggioritario, comunque tale da individuare – come nel caso del c.d. Mattarellum – le persone in competizione che chiedono loro consenso.

Invece, l’attuale legge elettorale, voluta da tutte le segreterie di partito, con relativi capi corrente, e imposta con un voto di fiducia dal governo Gentiloni, produce, attraverso listini e premio di maggioranza, un numero cospicuo di parlamentari nominati che rispondono non ai cittadini che dovrebbero rappresentare bensì ai pochi «potenti» che li hanno selezionati.

In secondo luogo, risulta sempre più urgente attuare l’art. 49 della Costituzione che prescrive regole di democrazia interna ai partiti tali da rendere trasparente ogni aspetto del loro funzionamento e più disagevole l’attuale gestione autoritaria, clientelare e correntizia degli equilibri interni di potere. E l’affacciarsi dell’intelligenza artificiale, ad un tempo minaccioso e promettente, può essere addomesticato? Questi ed altri interrogativi ipermoderni – guerre diffuse, deterioramento del pianeta, migrazioni di massa, oltre alla rivoluzione tecnologica in atto – richiedono la piena e vigorosa attuazione di quanto previsto dai padri e dalle madri costituenti.

È evidente come la riforma democratica dei partiti ponga anche la questione dei loro finanziamenti, tema ineludibile, anche se particolarmente delicato per lo stato di allarme e di insofferenza diffuso nell’opinione pubblica a tale riguardo.

Basti tenere presente il caso degli Stati Uniti in cui i costi elevati della politica, l’abolizione del finanziamento pubblico e di ogni limite ai finanziamenti privati costituiscono un elemento di oggettivo indebolimento della democrazia, peraltro vulnerabile su molti altri fronti.

Per nostra fortuna la legge tuttora vigente in Italia sulla par condicio vieta l’acquisto di spazi pubblicitari nel corso della campagna elettorale, così limitando i costi della politica. Tuttavia, la strutturazione dei partiti, finora tema eluso dal M5S e indebolito nel Pd, richiede finanziamenti che dovrebbero provenire dagli iscritti, con l’esclusione di contributi di enti privati, ma con il concorso di finanziamenti pubblici soggetti a regole di trasparenza.

A quando l’inizio di una discussione di questa natura, a cominciare da coloro che mostrano disponibilità a (ri)accostarsi alla politica?