«Il Natale di ognuno di noi è differente, ma è invece uguale il senso della felicità e di condivisione che appartiene ai popoli di tutti i continenti. Jazzy Christmas è il nostro modo di mettere insieme, in musica, sensazioni e ricordi indimenticabili». Così spiega Paolo Fresu nelle note di copertina del suo recentissimo disco, il primo «Christmas Album» davvero importante per il jazz strumentale italiano, essendo il canto natalizio un «genere» tipicamente vocale, pur con le dovute moltissime eccezioni. Genere? Sì, è il caso di usare questo termine classificatorio, perché il cosiddetto «Disco di Natale» (meglio la vulgata inglese Christmas Album) sta diventando ormai un fenomeno musicale e sociologico in grado di coinvolgere tutti i linguaggi sonori, con prassi e funzioni che lo differenziano da qualsiasi altro evento o prodotto dentro il mondo delle sette note. Infatti il Christmas Album compare anzitutto soltanto in un periodo limitato dell’anno, all’incirca un mese e mezzo a ridosso delle festività: ogni volta dall’8 dicembre al 6 gennaio si rinnova il rito di ascoltare, in casa o da altoparlanti diffusi entro o fuori i negozi delle città, i brani e i dischi ormai classici, a cui si aggiungono, da circa un quarto di secolo, novità sempre più importanti (in merito soprattutto alla fama dei musicisti) i quali, a loro volta, magari da un anno all’altro riusciranno a ottenere per il proprio Christmas Album la «patente» di classicità.
Un tempo, non lontano, tutto questo accade con un gruppo ristretto di cantanti melodici americani, a cui si aggiungono ben presto i «confidenziali» (jazz crooner), poi via via i gruppi strumentali e oggi qualunque tipologia di musicista popular: esistono ormai Christmas Album di tutti i generi, rock, country, reggae, punk, cajun, soul, disco, lounge, heavy metal, eccetera. Però il disco natalizio per essere considerato tale, ossia un genere, deve rispettare soprattutto i criteri del repertorio, limitandosi a un canzoniere numericamente esiguo, ma pronto a identificarsi con la sacra ricorrenza nell’immaginario collettivo statunitense fra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, da White Christmas a Jingle Bells, da Silent Night a O Tannebaum, da O Little Town of Bethlehem a Joy to the World, da Blue Xmas a Jingle Bell Rock, da Santa Klaus Is Coming to Town a Let it Snow! Let it Snow! Let it Snow! e via dicendo.
Anche il jazz strumentale conferma questa connotazione di «genere» musicale, sedimentato nella storia contemporanea, benché viva a suo modo, in teoria, un paradosso ben presto rivelatosi solo apparente per chi segua da vicino l’evolversi del jazz medesimo: da un lato si tratterebbe di musiche senza parti cantate che, per un argomento come il natale parrebbe fondamentale, considerando l’aspetto religioso, il carattere teologico, il messaggio di pace che vuole assumere una valenza sempre più universalista nelle società multietniche. Aldilà del fatto che i testi dei brani natalizi non aggiungono molto ad alcune nozioni-chiave sulla natività costruita nei secoli dalle fedi cristiane e dall’immaginario popolare – e rinforzata nelle song più moderne da un certo «american way of life» – è soprattutto il tema musicale, con particolare riguardo alle linee melodiche, a imporsi a livello di performance e di ricezione del Christmas Album di jazz strumentale.
A ciò va aggiunta una tradizione consolidatissima nel jazz strumentale di ogni epoca (compresa pure l’attuale, così eterogenea, variegata, persino convulsa): il songbook, su cui una band o un’orchestra lavora improvvisando, arrangiando, swingando, risulta da sempre formato da canzoni più o meno note, ossia gli standard del folklore, del teatro leggero, delle hit parade. I critici e gli studiosi, in tal senso, affermano che l’originalità e la bravura di un jazzman consistono nell’allontanarsi il più possibile dal modello originale, in altre parole – nel caso di una canzone da «interpretare» (e non semplicemente da «eseguire») – nel variarne gli aspetti melodici, timbrici, armonici, ritmici, fino a renderla irriconoscibile o comunque nuova, personale, diversa, rispetto alla partitura originaria. Basti pensare, a questo proposito, per citare solo un caso esemplare, cosa riesce fare il quartetto di John Coltrane nel 1961 con My Favorite Things, un valzerino di Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II, che diventa una focosa performance modale che in concerto può durare addirittura mezz’ora (rispetto agli otto minuti della prima incisione, comunque il doppio della prima versione ufficiale).
Cosa succede quindi con il jazz strumentale nei confronti dei brani natalizi? Come si giudica la riuscita di un Christmas Album? Anche qui dovrebbero valere le regole suddette, benché le caratteristiche di «genere» che possiede questa tipologia discografica fa sì che un Christian Album di «Instrumental Jazz», per farsi apprezzare, debba piuttosto sottolineare la riconoscibilità dei temi repertoriali prescelti (denominabili Christmas Standard), su cui si può, anzi si «deve» variarne le strutture musicali il più «infedelmente» possibile. Ecco, dunque, come nel jazz strumentale deve presentarsi un buon Christmas Album per essere ritenuto natalizio e di conseguenza entrare nel novero del «genere», magari senza ambire alla ricerca del capolavoro assoluto, sebbene la cultura odierna, dal postmoderno in avanti, nell’annullare le distanze tra l’alto e il basso dei fenomeni artistici, concepisca, anzi favorisca le chance di lavorare al massimo, anche dal punto di vista creativo, entro i ristretti limiti di un genere prestabilito: la storia del rock (ma anche del pop) più ancora del jazz (ormai eletto ad arte «nobile») è lì a dimostrarlo.
Per poter raccontare a grandi linee, l’iter evolutivo del Christmas Album nel jazz strumentale occorre partire, ancora una volta, dal brano White Christmas: è arcinoto l’episodio, citato anche da Fresu, quando nel booklet commenta ogni canzone, in cui l’autore, il celebre songwriter Irving Berlin, composta di sera la melodia, il mattino seguente corre in ufficio, gridando alla segretaria: «Prendi la penna e prendi appunti su questa canzone. Ho appena scritto la migliore canzone; diavolo, ho appena scritto la migliore canzone che chiunque abbia mai scritto!». La consapevolezza del «capolavoro», forse già postmodernamente inteso, fa sì che Berlin trovi anche l’interprete congeniale e il mezzo giusto per farne un evergreen internazionale e a tutt’oggi il maggior longseller nella storia della discografia. Tocca dunque a Bing Crosby incidere una prima versione nel 1942 e poi quella «classica» il 18 marzo 1947 nei Decca Studios con la Trotter Orchestra e i Darby Singers; e da allora White Christmas appare nell’album miscellaneo Holiday Inn nel formato di cinque 78 giri (1946) e poi come unico «padellone» long-playing (1949), diventando altresì il primo vero album «jazzato» Merry Christmas (1947 e 1949), tutto crosbiano. Da allora sono documentati decine di album di cantanti jazz statunitensi che orbitano attorno a questa classic song e a un’altra dozzina di pezzi (come quelli sopracitati), rivelando accenti di volta in volta swing, cool, mainstream, gospel, soul nel registrare il proprio Christmas Album in compagnia talvolta di formazioni prestigiose, come accade a Tony Bennett tre volte, rispettivamente 1968, 2002, 2008 con Robert Farnon, London Symphony Orchestra e soprattutto con l’ultrajazzistica la Count Basie Big Band, in A Swingin’ Christmas dove White Christmas è assente in quanto già incisa le due volte precedenti. Le orchestre però non sono le formazioni che contribuiscono a diffondere il Christmas Album di jazz strumentale, che storicamente risulta invece un fenomeno legato ai piccoli gruppi (anche senza vocalist) benché sia proprio di un’orchestrona celeberrima il primo importante long playing natalizio: si tratta di A Merry Christmas pubblicato dalla Capitol di Los Angeles nel 1961 con la roboante dicitura in copertina «From the creative world of Stan Kenton Come…»; in effetti per gli amanti della progressive music teorizzata è praticata appunto da Stan Kenton, un quindicennio prima, l’ellepì conferma l’inventiva del big band leader ad adattare la massa sonora fiatistica a repertori eterogenei, qui diffusi in tredici pezzi compositi dall’iniziale classico O Tannenbaum alla popolare Christmas Medley fino a un Christmas for Modern che quasi compendia l’intera poetica kentoniana.
I «favolosi» Sixties però non riservano grosse sorprese a parte due tastieristi black orientati verso il soul: da un lato il Ramsey Lewis Trio con Sound of Christmas e More Sounds of Christmas regala due vinili molto tradizionali rimpolpati da sezioni d’archi troppo mielosamente impiegate quasi a cozzare contro gli assolo frizzanti di un pianista allegramente funky. Dall’altro il grande Jimmy Smith – che già da un decennio converte l’Hammond B-3 al jazz, suonandoci hard bop a non finire – con l’album Christmas 64 (poi riedito come Christmas Cookin’) mostra come anche le cosiddette christmas song possano creare un’atmosfera soul-jazz vivace e simpatica e al contempo raffinata e virtuosa: gli arrangiamenti di Al Cohn per una spumeggiante big band fanno il resto a partire da una White Christmas tirata a lucido in chiave bossa-ballad sui tempi in crescendo. A rifinire un trittico ideale, arriva contemporaneamente A Charlie Brown Christmas uno degli album più frizzanti di questo genere, l’unico di jazz strumentale (assieme a Faith, fra i quattro stucchevoli cd natalizi di Kenny G) inserito nei «Best 20 Christmas Album» da varie testate americane: il lavoro del Vincente Guaraldi Trio è un cool rinnovato che sa un po’ di lounge, facendosi apprezzare per un riconoscibilissimo tocco swingante e per un simpatico mood ritmico. Lo stesso A Charlie Brown Christmas verrà risuonato e pubblicato nel 2000 dal pianista Cyrus Chestnut senza però eguagliare l’originale.
Per trovare non solo altri piano-jazzmen, ma persino altri importanti solisti – con l’unica significativa eccezione del John Fahey di The New Possibility: Guitar Soli Christmas Album (1968) – dediti ai dischi natalizi, occorrerà aspettare grosso modo la fine degli anni Novanta, dal momento che la rivoluzione anche «estetica» del Sessantotto accantona un genere ritenuto obsoleto: la parola christmas infatti nel jazz d’avanguardia – tra le migliori espressioni di una cultura sessantottina proiettata su lunghe distanze – compare in altri contesti, ad esempio di due musicisti particolari, Roach e Tracey. Max Roach, batterista nero simbolo della lotta per i diritti civili, con lavori epocali da We Insist Freedom Now Suite a Speak Brother Speak!, da It’s Time a Force: Sweet Mao-Suid Afrika ’76, nel 33 giri It’s Christmas Again (1985) registrato a Milano per la Soul Note, con i venti minuti del lato A esprime, grazie a un lungo recitativo, una visione cinica di un periodo dell’anno che dovrebbe essere gioioso, ma che il capitalismo rende difficile a molti: la voce di Odean Pope (anche al sax tenore) è integrata da Roach, non solo ai tamburi, ma pure a tastiere, percussioni, vibrafono, mentre Cecil Bridgewater (tromba) e Tyrone Brown (basso elettrico) completano un quartetto sperimentale. L’altro caso riguarda A Child’s Christmas: Jazz Suite dello Stan Tracey Quartet, realizzato a Londra nel 2001, con il pianista, già esponente del british free, che torna a comporre una suite dopo un silenzio decennale, rifacendosi nei temi alla Under Milk Road Suite che lo rende celebre nel 1966; ora Stan si ispira al racconto Natale di un bambino del grande poeta Dylan Thomas, in cui si evoca il ricordo di un’infanzia povera ma felice, in quanto ispirata a profondi ideali.
Altre due figure dello sperimentalismo jazzistico, stavolta donne, entrambe ancora pianiste, la Allen e la Bley, affrontano musicalmente il natale in una diversa accezione, reinterpretando gli antichi repertori anglosassoni: carole, inni, standard restano al centro di un discorso sonoro intenso in A Child Is Born (2011) di una Geri Allen qui multitastierista, a suonare via via piano Fasoli, celesta, organo Farfisa, Fender Rhodes, Holmer clavinet, accompagnata da un paio di voci solo in due brani su quattordici. Ancora la tradizione è presente in Carla’s Christmas Carols (2009) dove Carla Bley, piano e celesta, assieme al fido bassista Steve Swallow e al Partyka Brass Quintet offre sottile musica cameristica quasi a trascendere l’occasione festiva con un sound apprezzabile ad ogni stagione (ivi comprensi i due original Hell’s Bells e Jesus Maria).
La contemporaneità natalizia nel jazz strumentale riserva altresì due monumenti pianistici legati a un passato glorioso come il nero canadese Oscar Peterson e il britannico non vedente George Shearing: entrambi esordienti nell’immediato dopoguerra, approdano al loro primo e unico Christmas Album solo a fine Nineties, con eccellenti lavori di raro equilibrio: An Oscar Peterson Christmas è un capolavoro mainstream per la funambolica morbidezza con la quale il pianista all’epoca settantenne swinga su dodici pezzi natalizi tradizionalissimi, ma, forse per questa loro intrinseca «classicita», rivitalizzati da un romantico buonumore, oltre il «solito» funambolismo condiviso fra Dave Samuels (vibrafono) e Jack Schantz (flicorno) più ritmica e archi. Christmas with the George Shearing Quintet accoglie invece qualche brano poco noto, compiendo un’operazione musicale analoga, risuonando le Holiday Song nello stile inimitabile di un quartetto da sempre basato sui contrappunti fra pianoforte, vibrafono, chitarra, contrabbasso, batteria, con rotazione frequentissima di grandi strumentisti in oltre mezzo secolo di incessante attività. Entrambi, Oscar e George, interpretano la crosbiana White Christmas nei toni lievi di una ballad sofisticata.
Pensando invece ai jazzmen contemporanei che meglio rappresentano l’attuale postmodernità, vengono in mente cinque nomi di cui due simboleggiano proprio gli estremi della cultura postmoderna, la neoconservazione con Wynton Marsalis, la neoavanguardia con John Zorn: il trombettista di New Orleans registra addirittura tre dischi natalizi – Crescent City Christmas Card (1989), A Carnagie Hall Christmas Concert (1992, con Kathleen Battle), Christmas Jazz Jam (2008) – reiterando i «poteri forti» della tradizione afroamericana con una pimpante, maschia, ritmatissima White Christmas; l’alto sax newyorkese, esponente della musica ebraica radicale, compie l’ennesima impresa trasgressiva nell’ironico Dreamers Christmas dove non suona ma dirige un quintetto con Marc Ribot (chitarre) e Jamie Saft (tastiere) per gli interventi solistici in un patchwork quasi alla Frank Zappa. Al di fuori degli States il Christmas Album di jazz strumentale ama reinventarsi via via con il piano-jazz trio franco-canadese Michel Donato, Pierre Leduc, Richard Provençal in Noël en harmonie, con i catalani Locomotora Negra in Round Christmas Plus e soprattutto con il trombonista svedese Nils Landgren che ogni anno chiama a raccolta gli amici e colleghi della scuderia Act per raffinate nordiche jam session su temi canonici: il White Christmas nel primo Christmas with My Friends, affidato alla sola chitarra di Ulf Wakenius, resta emblematico di un modo anche laico di concepire la musica festiva.
E, infine, per tornare all’Italia, prima di Fresu, la progenitura discografica spetta forse al Concerto di Natale (1999) della bolognese Doctor Dixie Jazz Band rinforzata per l’occasione da Lucio Dalla e Henghel Gualdi senza dimenticare, dal Duemila a oggi, New Christmas in Dixie Style (Tiger Dixie Band), Christmas Party (Montefiori Cocktail), Christmas in Jazz (Claudio Chiara Quartet), Suddenly It’s Christmas Time (Silvia Manco Trio), Swingin’ Christmas (Guido Di Leone & Singers), December 25th (Giovanni Mazzarino), nonché il più singolare e oltranzista Christmas in New Orleans, degli Electric Flies del vulcanico Giovanni Falzone alla tromba e al flicorno. Ma la storia non finisce qui: ogni grande jazzman incide, almeno una volta nella propria vita, un canto natalizio: lo fanno Duke Ellington e Miles Davis, Charlie Parker e Louis Jordan, Paul Desmond e Roland Kirk, Dexter Gordon e Chico Hamilton, per citare solisti epocali. Ecco quindi che, intuito il business anche da parte delle jazz label, il Christmas Album diventa infine una mirabile antologia o una splendida raccolta per cultori e collezionisti.