I set dei film di guerra non sono la guerra, ma a volte possono provocare dei seri conflitti. Il colpo di pistola che l’attore hollywoodiano Alec Baldwin ha sparato giorni fa sul set del film Rust uccidendo la direttrice della fotografia Halyna Hutchins e ferendo alla spalla il regista Joel Souza, impone alcune riflessioni sul cinema e la vita reale. I contorni di quanto accaduto sul set del «ranch Bonanza» sono incerti e ondeggiano ancora tra incapacità e disattenzione. Potrebbe però emergere, in quella produzione molto conflittuale anche la «vendetta».

È singolare che «l’armiera», la giovane e inesperta Hannah Gutierrez-Reed, che dopo aver causato altri incidenti e aver lasciato sparare ad alcuni della troupe a dei barattoli con pallottole vere, vietate sui set, avesse lasciato incustodite le armi per raggiungere altri della produzione che erano in sciopero in un’altra località. Basta l’impreparazione e la disattenzione a spiegare le non poche vittime sui set nei milionari set americani?

Anni fa ho girato Nema problema, un film a basso budget sul giornalismo di guerra, in Bosnia, paese che era appena uscito dalla guerra ed era dilaniato da gravi tensioni tra le varie etnie. Avevo scelto di girare sui luoghi veri della guerra, e non tra la cartapesta degli «studios», ma non potevo esportare da Roma alla Bosnia le armi modificate per il cinema. Così durante le riprese ho gestito di persona, considerato che avevo già una ampia esperienza nel documentare guerre, oltre alla regia anche l’utilizzo di diverse armi vere, dai Kalashnikov ai cannoni e alle mitraglie dei Tank T 55 e, per fortuna, sono riuscito ad evitare «una vendetta» che sarebbe stata molto sanguinosa.

La scelta che permise di girare in un territorio difficile anche per la presenza di molte armi nascoste e di continui scontri tra i profughi e chi aveva occupato le case durante la guerra, fu di prendere come comparse, autisti, aiutanti persone di tutte le etnie: serbi, croati e musulmani bosniaci. Confesso che scelsi, per certi incarichi delicati, quelli che pur appartenendo a una delle tre etnie in conflitto si ritenevano ancora «jugoslavi».

Il film fu girato tra le cittadine di Teslic (serba) Usora (croati) e Tešanj (musulmana) dove erano avvenuti gravi fatti di pulizia etnica e battaglie cruente per quattro lunghi anni. Scelsi come «armieri» dei veterani di guerra di tutte e tre le etnie e feci un accordo con il comando della polizia bosniaca: ogni giorno mandava sul set una trentina di Kalashnikov e diverse pistole. Armi vere che erano custodite da tre poliziotti e venivano prelevate dalle auto della polizia solo dagli «armieri», se c’era bisogno per delle scene.

Vietai di portare proiettili veri sul set e provammo le pallottole a salve da esercitazione dell’esercito bosniaco, ma dopo quattro anni di conflitto con pallottole vere, quelle finte erano inutilizzabili: facevano inceppare i Kalashnikov e producevano un suono da cartone animato.

Gli «armieri» bosniaci risolsero brillantemente il problema delle munizioni a salve, della fiammata che doveva uscire dalle armi al momento dello sparo e del suono. C’erano però altri problemi da risolvere: le esplosioni delle granate di scena e trovare 4 o 5 tank. E poi in molte zone c’erano campi non ancora sminati.

Durante l’assedio di Sarajevo avevo conosciuto Braco, un mito del cinema jugoslavo, famoso per aver fatto saltare addirittura un ponte in una scena di un film, che aveva realizzato gli effetti speciali di mitici kolossal di guerra partigiana ai tempi di Tito. Aveva anche lavorato agli inizi degli anni ’60 a Roma, quando Tito aveva mandato diverse maestranze in Italia per imparare a realizzare nel loro paese i grandi film americani. Braco era già in pensione e molto provato da quattro anni di assedio, ma lo convinsi a lavorare nel mio piccolo film.

Mi presentò una lista di materiali che mi fece impallidire: «dieci chili di dinamite, 200 chili di polvere da sparo» e tanto altro. Gli chiesi preoccupato se volesse scatenare una seconda guerra. «Quando tu regista mi chiedi qualsiasi effetto di scena, devo essere pronto…» mi rispose con un tipico sorriso ironico bosniaco. Con il suo scudiero, un anziano pirotecnico, ottenute le necessarie autorizzazioni, acquistò gli esplosivi nella fabbrica di Konjic. Il comandante della polizia, un serbo di Teslic, per nulla preoccupato che una persona di etnia avversa portasse tutti quegli esplosivi nel suo territorio, mi rispose: «Nemaproblema!» Imposi però che gli esplosivi venissero custoditi dalla polizia, che li depositò in un caveau di una banca. Braco fece effetti speciali straordinari, ricordo ancora l’esplosione di una mina anticarro in un laghetto. La colonna d’acqua doveva superare in altezza una parete di pietra alta 30-40 metri. Buona la prima, grazie a Braco.

C’erano dei campi minati vicini a una collina dove si doveva girare. Risolsi il problema prendendo come consulente un ex militare bosniaco, «Zeljko della montagna», che sapeva perfettamente dove si trovavano le mine perché le aveva interrate lui stesso, anche se non voleva confessarlo.

Temevo che insorgessero tensioni tra gli addetti di varie etnie che non si incontravano e non si parlavano da anni. Invece giorno dopo giorno collaborarono sempre più tra di loro fraternamente, come se lo avessero fatto da sempre, al contrario degli italiani. Uno di questi, con tutti i problemi che c’erano, addirittura manifestò una irrefrenabile paura per le zanzare bosniache. Con mia grande soddisfazione, giorno dopo giorno, «Nemaproblema» stava diventando il primo film jugoslavo dopo il disfacimento della Jugoslavia. Gli attori dell’ex Jugoslavia, Labina Mitevska protagonista femminile di Prima della pioggia di Milcho Manchevski, film Leone d’oro a Venezia, e Zan Marolt, grandissimo attore di Sarajevo, che conoscevano la guerra, erano tranquilli e a loro agio. Avevano visto che avevo mille occhi, soprattutto per la sicurezza della troupe e dei cittadini bosniaci.

Girai delle scene difficilissime per la sicurezza con quattro tank T 55 bosniaci nel centro della città di Derventa. Misi il maggior impegno a controllare che non ci fossero munizioni nelle torrette nei cannoni e nelle mitragliatrici e feci mettere 50 poliziotti a bloccare tutte le strade. La NATO che mi aveva dato a fatica il permesso per quelle difficili scene, circondò la città con delle camionette di soldati perché temevano che qualche militare bosniaco fuggisse con un Tank per nasconderlo sulle montagne.

Verso la fine delle riprese avevo annusato l’aria. Dovevo stare ancora più attento. C’era da girare una delle ultime scene: spari da una collina con traccianti su una città sotto in una valle. Quel giorno controllai di persona «i traccianti» che erano stati portati da un fornitore esterno. Chiesi a un poliziotto di portare un Kalashnikov e sparare due o tre colpi di «traccianti». Non erano a salve, erano pallottole vere, le prime che erano entrate sul set. Se non me ne fossi accorto avremmo mitragliato con dei traccianti veri una città. Un ultimo rigurgito di guerra, una vendetta verso un luogo nemico o errore del fornitore? Non so, anche se ritengo più probabile un tentativo di vendetta. È certo però che non avrei mai lasciato sparare verso persone, come è accaduto nel film di Alec Baldwin, senza controllare prima il munizionamento.

Ci sarebbe da scrivere un libro su quanto accadde durante le riprese di Nemaproblema, un film che ha ribaltato la rappresentazione dei giornalisti dei film americani, dove sono quasi sempre senza macchia e senza paura. Già all’epoca Nemaproblema parlava della fabbricazione delle fake news, del rapporto tra realtà e verità e raccontava le difficoltà di capire e interpretare quello che tutti noi vediamo.

Di recente avrei voluto far restaurare il film, che era uscito nel 2004 e mi era costato tanti sacrifici, tanto impegno, tanti rischi. Nonostante la pellicola fosse stata conciata molto malamente da un laboratorio di Roma, il film venne invitato a venti festival internazionali e vinse tre premi all’estero. Avrei voluto farlo restaurare con le nuove tecnologie che ci sono ora per ripresentarlo nei festival del prossimo anno in occasione del trentennale della guerra di Bosnia.

Purtroppo il negativo del film è stato letteralmente «rapito» con un sopruso dal «Moloc» del parastato che assomiglia sempre di più al Minculpop del ventennio. Neanche il ministro della Cultura Dario Franceschini è riuscito sbaragliare i «rapitori», anche se sono suoi sottoposti. Allora perché si parla tanto di promozione e diffusione del cinema italiano? Neanche il vento vuole più ascoltare simili sciocchezze.