Questo breve incontro con Manoel de Oliveira è avvenuto a Cannes, nel maggio del 2007, subito dopo la proiezione di Cristoforo Colombo, l’enigma – la storia di un medico portoghese, emigrato in America, da anziano interpretato dallo stesso de Oliveira insieme alla moglie, appassionato di Storia che cerca di dimostrare che Cristoforo Colombo era portoghese.
Si tratta dell’inizio di quella che, nelle nostre intenzioni doveva essere una lunga intervista a tutto campo e che la frenesia festivaliera ha interrotto sul nascere. Manoel de Oliveira ci diede appuntamento a «più tardi», a Parigi o a Lisbona… Nell’attesa di quel nuovo incontro, Hervé Aubron ed io, che allora lavoravamo per i Cahier du cinéma, giudicammo questi brevi scambi troppo lacunari per essere pubblicati. Oggi, sappendo che il nuovo incontro non avrà luogo, ci sentiamo di condividere questa piccola conversazione con tutti quelli che amano il cinema di Oliveira.

 

Quando è arrivato?
Ieri sera, con mia moglie.

 

 

 

Il viaggio vi ha stancato?
Affatto. Lavoro senza tregua, non ho tempo per essere stanco. A casa mia manco soprattutto di spazio. Nella vita in genere è il tempo che scarseggia. Ma ci sono dei rimedi.
Il suo Colombo è caratterizzato da una saggezza marinara. Lo vediamo attraversare diverse epoche: quella delle grandi esplorazioni, quella degli emigranti portoghesi negli Stati Uniti e la nostra.

 

 

 

Come ha affrontato l’ impresa?
Ogni film deve darsi tempi e luoghi propri. Per questo è stato necessario andare a Lisbona. Poi nell’Algarve, infine a New York e a Porto Santo. Posso dire di avere viaggiato più di Colombo stesso.

 

 

 

«Cristoforo Colombo» è anche un «film parlato», un racconto alla macchina da presa.
Non parlerei di un «film parlato». Piuttosto di un film «scoprimento».

 

 

 

In che senso?
In portoghese si dice «descombrimentos». Le grandi scoperte segnano un momento fondamentale della storia del Portogallo. E non solo del Portogallo, ma del mondo intero. Ci sono tre grandi momenti di passaggio della storia portoghese, io ne ho narrati due. Il primo sono le grandi scoperte, il secondo la battaglia di Alcazarquivir, detta dei «tre re», che ho raccontato con la storia della follia del re Sebastiano I in Il quinto impero.

 

 

 

Ieri come oggi:«Arrestate il re!»
Sì, «arrestate il re» è un’espressione diffusa in Portogallo. Alla fine de Il quinto impero ci si chiede se bisogna arrestare il re perché è diventato pazzo.

 

 

 

Anche in Colombo c’è un lato di follia.
È la follia che spinge a oltrepassare i limiti. Non si può pensare oltre e dentro i limiti al tempo stesso. Bisogna superare i limiti con il pensiero prima di riuscire a farlo con il corpo. La frontiera è il mare. Padre Vieira ha scritto dei sermoni per l’unità dei credenti. Voleva un solo papa, un solo re, un solo comandante e una sola religione. Nessuna frontiera, né fisica, né politica, né spirituale.

 

 

 

Era pazzo?
No. È possibile. La religione unica è la religione che mescola tutte le religioni.

 

 

 

L’idea che Colombo sia  portoghese viene da un libro?
Non importa se Colombo era italiano, francese o portoghese. Ciò che conta è che era un essere umano. Non si raccontano mai le tragedie, il prezzo pagato per le grandi scoperte. Si parla sempre dei gesti eroici. Mai dei sacrifici dei marinai che sono morti in mare. Il nostro poeta Luis Camoes non cantava l’immortalità dei grandi conquistadores ma dei marinai che con il loro sacrificio hanno esteso gli orizzonti del mondo. Secondo il poeta, il fine delle scoperte non era la conquista ma la conoscenza: far conoscere la fede cristiana e portare la testimonianza del vangelo a quelli che non lo avevano. Le grandi conquiste non sono dunque un affare d’armi ma di spirito. È molto importante.

 

 

 

Si parla anche di immortalità…
Si, attraverso la memoria. Senza la memoria non siamo nulla. La nostra immortalità è nel ricordo.

 

 

 

Alla fine del film Silvia Jorge da Silva (Maria Isabel de Oliveira) dice: «L’avvenire è la nostalgia».
È la melanconia. Perché vedo che non c’è comprensione da parte dello spettatore, preferisce ignorare oppure è indifferente. Mi rattrista che l’umanità si riconosca unicamente nelle vittorie della Storia.

 

 

 

L’oceano sembra rappresentare questa memoria eterna, in movimento, che è là ma perde le tracce di sé.
Nella navigazione è il cielo che comanda.

 

 

Eppure, quando i due fratelli si apprestano a lasciare Lisbona e a viaggiare alla volta di New York, la traversata è annunciata con un’inquadratura sulle nuvole.
Il cielo comanda l’avvenire, dove si va: il vento, il sole, le stelle. Ma c’è non solo questo. L’avvenire dipende dal passato, dalla memoria, dalla tradizione. È per questo che nei miei film si parla spesso del matrimonio. Non c’è futuro senza sesso. Ma perché l’atto sessuale possa essere concepito con dignità, ci vuole il matrimonio, la tradizione.

 

 

 

Nel film appare una donna che si avvolge nella bandiera del Portogallo.

È una figura simbolica: l’angelo custode.Rappresenta la fortuna.Non è sprovvisto di una certa sensualità… L’angelo non ha sesso, ma l’iconografia tradizionale sceglie dei bimbi o dei fanciulli.

 

 

 

Perché una donna?
La donna è importante. Mentre l’uomo è inutile. L’uomo è lo sperma. In natura, la mantide religiosa, dopo l’accoppiamento, si ciba del marito perché questi, dopo il coito, non serve a nulla.

 

 

 

Nella sequenza a Manhattan, dove lei recita in compagnia di sua moglie, ad un certo punto parlando del movimento, guardate in alto. Che cosa guardate?
I grattacieli. Il grattacielo è all’origine di Nuova York. Prima della fondazione, con i nativi era il Totem. Ora è il grattacielo. È il simbolo di qualcosa che ci supera. Ci crediamo liberi perché ignoriamo le forze oscure che sono in movimento.
Cannes 2007, insieme a Hervé Aubron