Hanno sterilizzato le tende del presidio di Nassiriya, Baghdad e delle altre piazze irachene, distribuito mascherine e disinfettante. I giovani manifestanti che dal primo ottobre scorso protestano contro Stato settario, corruzione, povertà, non hanno lasciato le strade. Nonostante il coronavirus.

Il dibattito non manca: in tanti chiedono di sospendere la mobilitazione popolare, di non vergognarsi a immaginare nuove forme di protesta a fronte dell’epidemia; altri rimangono, ma i numeri inevitabilmente calano.

Questa settimana la protesta era stata ravvivata dalla nomina dell’ennesimo primo ministro, Adnan al-Zurfi, doppia cittadinanza irachena e statunitense, ex governatore di Najaf, protagonista del tentato golpe contro Saddam nei primi anni ’90. La piazza non lo vuole, i partiti filo-iraniani nemmeno. Si vedrà.

Di fronte ha una sfida di non poco conto, il Covid-19. I dati forniti venerdì dal ministero della salute parlano di 208 casi positivi, 17 decessi e 50 guariti. Ieri la città di Baghdad dava i suoi numeri, 51 contagiati, mentre il governatorato di Kirkuk serrava la provincia: non si entra e non si esce fino a nuovo ordine.

Misure che si aggiungono a quelle prese a livello federale dopo il boom dei contagi nel vicino Iran: coprifuoco nelle principali città, province isolate, moschee sbarrate, ma anche confini chiusi e voli sospesi, decisioni dovute che si traducono nella perdita di introiti dai pellegrinaggi sciiti. Se si aggiunge il calo del prezzo del petrolio, si comprende bene il danno economico per l’Iraq.

A far fronte all’emergenza c’è un sistema sanitario carente. Un sistema d’avanguardia negli anni ’70 con una propria industria farmaceutica con due sedi a Mosul e Samara, smembrato da decenni di embargo (quello imposto dalla comunità internazionale contro Saddam Hussein), dalle due guerre del Golfo e il loro carico di morti, feriti, ammalati da uranio impoverito, e infine dalle istituzioni nate dopo la caduta del Baath, tra le più corrotte al mondo.

Il collasso del sistema sanitario, a partire dall’invasione dell’Iraq del 2003 – di cui venerdì scorso ricorrevano i 17 anni – ha portato a una fuga di professionalità all’estero, denunciava nel 2013 la Mezzaluna rossa irachena: il 50% dei medici, 20mila, e il 70% degli specialisti, 52mila, ha lasciato il paese per Europa e Usa, mentre cliniche e ospedali venivano distrutti dalle guerre.

Una carenza di medici – pagati appena 700 dollari al mese – che fa il paio con la carenza di medicinali (l’85% di quelli essenziali non è disponibile o è insufficiente, dice l’ex ministro della salute Alwan in un’intervista alla Reuters), posti letto ed equipaggiamento sanitario.

Non è un caso, scrive in un rapporto Shafaq News, che il tasso di mortalità infantile in Iraq sia tra i più alti della regione e l’aspettativa di vita ben al di sotto della media mediorientale.

La politica non dà soluzioni: nel 2019 il governo ha destinato solo il 2,5% (pari a 2,6 miliardi di dollari) del budget annuale alla sanità, il 18% alle forze di sicurezza e il 13,5% per il ministero del petrolio.

Il bilancio lo fa l’Oms: nell’ultimo decennio Baghdad ha speso per ogni cittadino 161 dollari l’anno per il sistema sanitario (per fare un paragone: la Giordania ne ha investiti 304, il Libano 649), continua il rapporto di Shafaq. Anche contro questo combattono da mesi i presidi di protesta.