Nader Mohamed Gameel ha poco più di vent’anni quando ai primi di dicembre del 2019 decide di comprare il biglietto per salire in cima al Borg Al Qahira, la Cairo Tower, una delle attrazioni più visitate della capitale egiziana.

Nader, studente di ingegneria alla Helwan University, indossa abiti scuri nei frame delle telecamere di sicurezza che lo inquadrano intento a scavalcare la rete metallica di protezione. Sono gli ultimi istanti della sua vita, prima di lasciarsi cadere nel vuoto da 187 metri di altezza. Un gesto che ha scioccato l’intero Egitto, un paese in cui il tasso dei suicidi è in costante crescita.

Stando ai dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità, sono oltre 3.799 gli egiziani che si tolgono la vita ogni anno, circa 4,4 ogni 100mila abitanti. Un numero basso rispetto alla media mondiale (l’Egitto si trova al 152esimo posto), ma in realtà è alto all’interno del mondo arabo.

In tutti i paesi del Nord Africa, infatti, il numero dei suicidi ha subito un calo rispetto agli anni precedenti le primavere arabe, mentre in Egitto segue un triste trend positivo, soprattutto tra i giovani.

Secondo Abeer Mahmoud Eissa, professoressa di psichiatria alla Ain Shams University del Cairo, le cause che spingono gli egiziani a togliersi la vita sono molteplici, primo fra tutti l’elevato onere finanziario. A questo si somma il «mancato sostegno sociale verso chi ha pensieri o idee suicide e la mancanza di consapevolezza riguardo ai problemi di salute mentale, in particolare la depressione», ci dice Eissa.

Il numero delle donne che decidono di togliersi la vita è molto più basso (1,7 per 100mila abitanti) rispetto a quello degli uomini (7,2). Tra le cause principali ci sono i traumi derivanti dalle violenze sessuali che non sempre vengono denunciati.

Disoccupazione giovanile, repressione dei diritti, omofobia e discriminazione nei confronti della comunità Lgbtqi influiscono negativamente sullo stato di salute dei giovani in Egitto. Secondo il ministero della salute egiziana il 21,5% degli studenti universitari ha avuto pensieri suicidi nel periodo tra il 2018 e il 2019.

Le istituzioni egiziane affrontano il fenomeno con grande immobilismo, dato che è considerato ancora come un tabù, soprattutto per motivi religiosi. Sia per i cristiani copti (circa il 10% della popolazione egiziana) sia per i musulmani, il suicidio è considerato tra i peccati peggiori che si possano commettere. Non sempre, quindi, si è compresi dalla società e sono molte le famiglie che cercano di registrare i suicidi dei loro parenti come morti accidentali.

Da quando il generale Al Sisi ha preso le redini del potere il numero crescente di persone in difficoltà non sa a chi rivolgersi. «C’è una riluttanza a fornire assistenza a coloro che cercano aiuto, la questione nel complesso è sottovalutata e la scarsa valutazione dei fattori di rischio di suicidio nella pratica clinica è un grande problema», afferma la professoressa.

La maggior parte dei centralini messi a disposizione dal ministero della salute non funziona e non tutti possono permettersi una terapia con dottori competenti. Le singole sedute psichiatriche arrivano a costare anche fino a 1.800 sterline egiziane, a fronte di un salario minimo di 2mila sterline (circa 115 euro).

I fondi messi a disposizione per l’apertura di centri di assistenza sono quasi nulli se non inesistenti e il vuoto dello Stato è colmato, quando possibile, dalle associazioni di volontariato.

«Purtroppo, finora non sono stati fatti interventi seri e questo spiega perché i tassi di suicidio sono in aumento», prosegue Eissa. «Gli interventi effettuati – continua – sono solo sforzi individuali e di gruppo da parte delle professioni mediche, specialmente degli psichiatri, attraverso i social media e le campagne di sensibilizzazione».

In tutto ciò la corretta informazione diventa un elemento chiave per abbattere lo stigma sociale, soprattutto tra gli uomini, «perché porta a una comprensione sempre maggiore delle malattie psichiatriche, portando i tabù a diminuire con il tempo», conclude la dottoressa.