L’Italia non è un Paese per giovani. Lo conferma uno studio dell’Ocse, Uno sguardo sulla società 2016, che analizza il benessere sociale nelle 34 nazioni industrializzate. Quest’anno il rapporto riguarda i giovani che vivono una condizione per niente invidiabile: i cosiddetti «Neet» (not in education, employment or training), i 15-29 enni che non sono né occupati, né a scuola o in formazione. La condizione dei ragazzi italiani è preoccupante: il tasso dei Neet tra il 2007 e il 2014 ha raggiunto il 27%, il secondo più alto nell’Ocse dopo la Turchia. La situazione è peggiorata dopo la recessione del 2007, ma la percentuale era alta anche prima, attorno al 20%, 4 punti sopra la media Ocse.

Come in altre nazioni, la disoccupazione è più diffusa tra i giovani con un basso livello di istruzione (52%), rispetto a quelli più istruiti (31%). E anche la situazione formativa nel nostro paese non è rosea: il 30% degli uomini e il 23% delle donne tra i 25 e i 34 anni non ha un titolo di studio di scuola secondaria superiore, il quinto tasso più elevato dell’Ocse. Non solo: l’Italia ha anche il maggior numero di giovani con basse competenze alfabetiche (20%). L’intreccio tra scarso livello educativo e disoccupazione rende difficile per molti l’entrata nel mondo del lavoro, e aumenta i rischi di marginalità sociale e criminalità. «Per i giovani poco qualificati diventa sempre più complicato trovare un impiego, soprattutto un impiego stabile», sottolinea Stefano Scarpetta, direttore della divisione Ocse per occupazione, lavoro e affari sociali, «se non verranno fatti sforzi per migliorare l’accesso agli studi e alla formazione avremo una società sempre più divisa». L’Ocse ritiene prioritaria la lotta contro l’abbandono scolastico: «I governi devono garantire ai giovani di ottenere almeno un diploma di scuola superiore, per acquisire competenze professionali». Secondo l’Ocse, il 60% dei Neet non cerca nemmeno un lavoro.

Il documento evidenzia gli effetti negativi di questa situazione sull’economia: il lavoro perso dei Neet rappresenta un costo per il paese, pari a circa un punto e mezzo del nostro Pil: il dato italiano è il terzo peggiore, dopo Grecia (2%), e Turchia (3,45). La mancanza di occupazione provoca poi pesanti ricadute sociali: in Italia l’80% dei giovani vive con i genitori, rinviando tappe importanti della vita adulta, contro il 60% della media Ocse. Si innalzano anche l’età media del matrimonio, della nascita del primo figlio, e resta tra i più bassi il tasso di fertilità in Italia, dell’1,37%, al di sotto della media Ocse dell’1,68%.

Il Jobs Act non è stato d’aiuto. «La speranza era che facilitasse non solo la ripresa dell’occupazione permanente, ma anche di quella giovanile», spiega l’economista della Statale di Milano Giovanni Pica. «Ma non è stato così. La ricomposizione dei contratti permanenti ha favorito solo chi aveva già un’esperienza lavorativa, penalizzando i giovani. Prima della crisi i giovani riuscivano a inserirsi nel mondo del lavoro tramite i contratti temporanei, poi questo canale d’ingresso si è spezzato. E il Jobs Act non è il rimedio a tutto questo».