Il compito da svolgere sulla scuola per il governo sarebbe in realtà già tutto scritto.

Prendiamo la questione più spinosa, quella dei precari: a voler “normalizzare” la situazione basterebbe semplicemente prendere atto del loro status attuale, del livello di avanzamento delle loro carriere e, con la linea rapida di un decreto, stabilizzarli, visto che è dimostrato che assumere i precari a settembre e licenziarli a giugno costa più o meno lo stesso.

Ed eliminare finalmente le graduatorie a esaurimento. Non parliamo di supplenze brevi ma di quella parte del corpo insegnante che stabilmente manda avanti la scuola e ne costituisce uno dei pilastri portanti. Non una immissione in massa di «fannulloni» ma la semplice presa d’atto di uno stato di cose esistente. Sarebbe una svolta epocale, di quelle che questo governo rincorre affannosamente.

Questa dimensione epocale rischia di restare anch’essa nella terra degli annunci, poiché sembra infrangersi sul problema dei costi e soprattutto su chi li pagherà. La ministra Madia sottolinea che non ci sono soldi per gli statali. Dovranno rinunciare questi docenti alla ricostruzione della carriera? La strada presa sembra quella della riduzione delle tutele. Per tutti, per chi entra e per chi già c’è. Bisogna ricordare che gli scatti di anzianità non sono un aumento di stipendio, sono un antico rimedio per non impoverirli ulteriormente. Visto che siamo già gli ultimi in Europa per la retribuzione degli insegnanti.

E anche la questione del merito appare in preoccupante continuità con i precedenti governi, laddove sotto la voce «promozione del merito» si è cercato ostinatamente di rompere la compattezza di una categoria e di provocare la più classica delle guerre tra poveri. Mentre invece una differenziazione di ruoli esiste già, nei fatti, nella scuola dell’autonomia.

La scuola italiana è molto più avanti di chi la governa e l’ha governata per anni. Ne sono sempre più convinta quando parliamo dei processi di innovazione. La maggior parte delle scuole li sta già praticando, nonostante i tagli degli anni passati. La scuola digitale, l’inglese alle elementari, le nuove alfabetizzazioni, sono già una realtà nelle nostre scuole, che purtroppo camminano sulle loro gracilissime gambe economiche. Quello che serve è investimento finanziario, peraltro profondamente redditizio per lo stato, a sostegno di questo lavoro.

Ciò che lascia sgomenti nei 12 punti, una sorta di «giornalino di Gianburrasca», è l’assenza di una visione culturale organica. Si naviga ancora una volta a vista. E manca l’idea del ruolo della scuola e della cultura nel mondo globalizzato post-moderno dei nostri giovani, dove già una politica fatta di slide appare vecchia di qualche era geologica.

Sulla scuola non esiste una visione strategica, manca un’idea di sviluppo legato all’investimento nel sapere. Continua a latitare un progetto generale di connessione tra istruzione, formazione, ricerca e lavoro, che non può essere risolta solo dall’estensione di percorsi (anche questi già esistenti) di alternanza scuola – lavoro.

P.S. Ieri è trascorso il terzo dei mille giorni per mille asili. Si hanno notizie dei primi tre asili aperti?