Qualche giorno fa (il manifesto, 6 agosto), in un articolo sulla Germania, Marco Bascetta ha scritto che «il socialismo europeo non è fallito perché si è convertito al neoliberismo, ma si è convertito al neoliberismo perché era fallito. Perché il modello di stato, di welfare, di lavoro, di identità singolari e collettive che esso proponeva non corrispondevano più alle aspirazioni di soggettività sociali profondamente trasformate. Se non si parte da questo presupposto la partita con le promesse, sia pur disattese, del neoliberismo è irrimediabilmente perduta». L’Andersen de I vestiti nuovi dell’Imperatore non avrebbe potuto dir meglio.

A sinistra, oggi, in Italia e nel mondo, non c’è solo dello spazio, ci sono addirittura steppe a perdita d’occhio. Ma occorrerebbe sapere come abitarle e coltivarle e non si può certo farlo inalberando annunci tipo «Qui non si vende e non si beve Coca Cola», come si leggeva su uno striscione a un recente festival di Rifondazione a Savona… E nemmeno illudendosi che sia possibile riformare il sistema dall’interno, come avverte giustamente Bertinotti, alambiccando con vecchie alchimie di scissione e ricomposizione delle residue forze esistenti. Né, come ha più volte ribadito Marco Revelli, cercando di far nascere nuove strutture politiche ormai impossibili nelle forme novecentesche, che peraltro sono ancora le sole che conosciamo.

E d’altra parte, nonostante gli entusiasmi che tutti di volta in volta proviamo, mi sembra dimostrata l’impossibilità di dare consistenza e continuità all’effervescente volatilità dei movimenti nati in rete: crescono, esplodono, galvanizzano, si afflosciano (quasi sempre per esaurimento interno davanti al logoramento cui sono sottoposti dal blocco compatto di un’informazione orwelliana).
Alla fine della grande fabbrica, quindi dell’esperienza collettiva di lavoro e di organizzazione di resistenza, è seguito l’isolamento indotto dall’elettronica: i social network, spesso a un livello di comunicazione adolescenziale, sono una sagra delle frustrazioni e, ancor più, del narcisisimo di massa.

Non solo. Renzi è una macchietta vernacolare (ma nel vuoto italico pericolosa) e strumento più o meno consapevole di forze ben più grandi di lui. Però non è che la situazione generale del mondo consenta grandi slanci.
Elenco alla rinfusa il panorama che si srotola quotidianamente davanti a noi e che del resto i lettori del manifesto conoscono meglio di me. Una crisi economica che sembra non finire mai. Migrazioni bibliche di popoli (e conseguenti reazioni razziste nei paesi di approdo, quelli che ci riescono). Rinascita dell’islamismo politico e bellico. Ristrutturazione geopolitica globale con diminuzione dell’egemonia degli Stati uniti. La Turchia, ormai esplicitamente antidemocratica, colonna della Nato (che era nata in funzione antisovietica e che avrebbe dovuto sciogliersi dopo il crollo dell’Urss). I paesi dell’area ex Unione Sovietica esplicitamente antidemocratici (Ungheria in primis), ma favoriti in Europa.

Intanto Usa e Russia hanno quasi fermato il disarmo concordato a suo tempo, e India, Pakistan e Cina accelerano le ricerche per la bomba nucleare. Ue in crisi e apparentemente non in grado di riformarsi. Gli stati nazionali esautorati con trasferimento di sovranità a opachi centri di potere finanziario. Esplicite accuse di “eccesso di democrazia” da parte di agenzie finanziarie americane alle Costituzioni dei paesi europei mediterranei. Gli stati dell’Ue, privati della sovranità monetaria, succubi della Germania e degli stati suoi satelliti: Olanda, Belgio, paesi nordici. E l’incombente catastrofe ecologica, forse, con quella umanitaria, la più drammatica di tutte le cosiddette “emergenze” (ma le emergenze non sono circostanze critiche improvvise e accidentali? E che cosa c’è di improvviso e accidentale nell’implosione dell’Africa subsahariana e del bacino mediterraneo? E il Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma non è del 1972?).

Volendo, si potrebbe comunque continuare. Non credo che nella storia del mondo si siano verificate spesso congiunture in cui una sola mossa sbagliata di qualche statista sprovveduto (e oggi non c’è che l’imbarazzo della scelta) potesse far saltare per aria il pianeta.
Personalmente, quella che ferisce di più, e che più acutamente morde nell’impotente susseguirsi dei giorni, è la generale perdita di umanità.

Solo Bergoglio ce la ricorda, quotidianamente, con voce sempre più sofferta e stanca (ma dietro, nell’ombra, c’è sempre il favorito della Curia, il cardinal Scola, che si scalda i muscoli sul tapis roulant dell’ auspicata successione). Non si percepisce più la dimensione del tragico, non sentiamo più la sofferenza degli altri come qualcosa che ci riguarda perché abbiamo perduto la capacità di immedesimarci, di proiettarci-specchiarci nell’altro da sé. Si prova un po’ di pena, quando va bene, ma nulla ci coinvolge nel profondo, nemmeno il pensiero che quando mangiamo tonno e cipolla siamo cannibali. Chi si ricorda più della giustizia per le vittime innocenti della storia? Chi ripercorre lo sguardo dell’ Angelus Novus benjaminiano?

«Sono stato indotto a concludere che l’American way of life era il genere di vita proprio del mondo post-storico, dal momento che l’attuale presenza degli Stati Uniti nel Mondo prefigura il futuro ’eterno presente’ dell’umanità tutta intera. Così il ritorno dell’Uomo all’animalità appariva non più come una possibilità ancora di là da venire, bensì come una certezza già presente». Così scriveva, più di mezzo secolo fa, Alexandre Kojéve.

Ma se la politica è prassi, vuol dire che è anche un modo di vivere. E qui, secondo me, sta il nocciolo duro del nostro problema.
Ricordo uno slogan del Sessantotto, credo di origine deleuziana o lacaniana: «Rivoluzione non è la soddisfazione dei bisogni ma la stimolazione del desiderio». Al tempo sembrava liberatorio, anzi era una parola guida, ma poi, per la solita eterogenesi dei fini, si è rovesciato nel suo contrario: da lì, per passi successivi, scavallando droga e terrorismo (una generazione perduta), attraverso gli anni da bere e il berlusconismo si arriva ai selfie di Renzi, alle copertine di mademoiselle Boschi e alla stupefazione della ministra Madia.

In Italia la sconfitta della politica comincia negli anni Settanta del secolo scorso, e la rivoluzione del costume, che è quanto resta del Sessantotto, è diventata ben presto funzionale al capitalismo: Pasolini l’aveva capito con grandissimo anticipo. E pure Alexander Langer. E su questi temi rinvio a I destini generali di Guido Mazzoni: se ne è parlato anche su questo giornale, forse un po’ troppo sbrigativamente per i problemi che il libro pone. Certo, sono pagine che si chiudono senza prospettive su un radioso futuro, ma, come dice Simon Critchley: «Keep your mind in hell and despair not».

A sinistra c’è spazio, dicevo all’inizio. Può esserci anche vita, se non abbiamo fretta di ripercorrere strade senza uscita: e con i partitini vecchi e nuovi si andrebbe certo poco lontano. Sui tempi brevi dovunque si può, chiunque è in grado, si metta sabbia negli ingranaggi, gufiamo rosichiamo boicottiamo intralciamo, sgambettiamo anche.
Sui tempi lunghi, senza pretendere di seguire le tracce della vecchia talpa, cerchiamo di aprire il più possibile nuovi spazi “pubblici” nelle realtà locali, collaborazioni di pubblico-privato su progetti ben definiti, senza insegne di partito, senza aggirarci in un gioco di specchi che riflettono sempre la nostra immagine. Iscriviamo segnali di resistenza, soprattutto morale, nella trama del quotidiano. Cerchiamo di ricostituire e difendere un’immagine dell’uomo, ripristiniamo il “noi” dell’azione, riprendiamoci il tempo ridando al tempo la sua temporalità, cioè un passato e un futuro, non solo un immobile, tragico presente. In fin dei conti nei tanti tempi bui dell’umanità son sempre stati i piccoli gruppi – minoranze intellettuali, monaci, folli, bucanieri, anarchici, teatranti – a lanciare segnali nell’oscurità.
Come diceva Gustav Mahler: «La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri».