Con un’altra condanna della Corte europea dei diritti umani, per l’Italia non poteva aprirsi in modo peggiore il semestre di presidenza europea. Per la seconda volta in pochi giorni, i giudici di Strasburgo hanno riscontrato una violazione dell’articolo 3 della Convezione per le violenze delle forze dell’ordine su persone fermate o arrestate. Sottolineando soprattutto ancora una volta, dopo il recente caso di Dimitri Alberti, che gli agenti colpevoli degli atti di violenza – avvenuti stavolta nel carcere di San Sebastiano di Sassari nell’aprile del 2000 – non hanno ricevuto pene proporzionali al reato commesso.

Le cause di questa sorta di “impunità” sono molte: un processo che si è allungato per oltre otto anni con la conseguenza che molti colpevoli sono stati prosciolti per prescrizione dei reati commessi, e anche per l’inefficacia dell’azione sanzionatoria. Secondo quanto appurato dai giudici europei, infatti, sono state comminate pene troppo leggere. Ad esempio, uno degli agenti è stato condannato per omessa denuncia e dunque sanzionato solo con una multa da 100 euro, mentre altri suoi colleghi sono riusciti ad ottenere la sospensione della condanna alla reclusione. Non solo: la Cedu rileva anche la difficoltà di appurare se gli agenti penitenziari responsabili delle violenze siano stati poi adeguatamente sottoposti ad azione disciplinare. Il governo italiano non lo dice. Per i giudici di Strasburgo, però, il detenuto che ha presentato il ricorso – Valentino Saba, che fu tra coloro che subirono violenze e che oggi dovrà ricevere dall’Italia un risarcimento di 15 mila euro per danni morali, anche se lui ne aveva chiesti 100 mila – è stato sottoposto a trattamento inumano e degradante ma non a tortura, come sosteneva l’ex detenuto. Nel procedimento davanti alla Cedu si erano costituiti parte «amicus curiæ», sostenendo le ragioni di Saba, il Partito Radicale italiano, quello Transnazionale transpartito e l’associazione «Non c’è pace senza giustizia».

All’epoca dei fatti, il caso venne sollevato proprio sul manifesto dall’associazione Antigone. Che nel terzo rapporto sulla condizione delle carceri scriveva: «Il 27 marzo 2000 i detenuti del carcere San Sebastiano di Sassari iniziarono una protesta pacifica rumoreggiando con le sbarre della cella a mezzanotte meno un quarto. Colpirono con le posate sulle grate, danno fuoco alle lenzuola, fecero esplodere le bombolette di gas. Alla loro protesta seguì quella dei direttori. A causa del loro sciopero, infatti, i detenuti furono lasciati senza viveri del “sopravvitto” e senza sigarette. Il 3 aprile 2000 venne organizzato uno sfollamento generale dei detenuti da trasferire in altri istituti dell’isola. Durante la traduzione una trentina di detenuti vennero brutalmente picchiati. I parenti protestarono. Scattarono le prime denunce, l’associazione Antigone il 18 aprile 2000 incontrò i vertici dell’Amministrazione penitenziaria. Il 20 aprile le madri dei giovani detenuti picchiati organizzarono una fiaccolata. Il 3 maggio 2000 la Procura emise 82 provvedimenti di custodia cautelare, di cui 22 in carcere e 60 agli arresti domiciliari. Vennero coinvolti il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, la direttrice, il comandante del reparto».

E invece della condanna europea si dice «sorpreso» il segretario del Sappe, Donato Capece: «Lo abbiamo detto e lo voglio ribadire: a Sassari non ci fu nessuna spedizione punitiva contro i detenuti ma si tenne una necessaria operazione di servizio per ristabilire l’ordine in carcere a seguito di una diffusa protesta dei ristretti». Ecco perché, molto probabilmente, come sottolinea la Cedu, gli autori di quei «trattamenti inumani e degradanti» non subirono un’adeguata azione disciplinare, mantenendo il loro posto in servizio.