Stephen King ha paragonato l’immaginazione a un terzo occhio che nell’infanzia ha una vista perfetta e, man mano che cresciamo, comincia a offuscarsi. Per apprezzare l’ultimo romanzo di Salman Rushdie, Due anni, otto mesi e ventotto notti (Mondadori, traduzione Lorenzo Flabbi, pp. 296, euro  22,00) è necessario che quell’occhio in più non sia ancora completamente appannato, perché, anche se, come afferma ancora King, compito dello scrittore di letteratura fantastica è «fornire quel terzo occhio di una singola, potente, lente», nessuna «lente» può riuscire ad adattare un occhio annebbiato dalla banalità del reale alle tante meraviglie e magie intrecciate nel racconto di Rushdie.

Due anni, otto mesi e ventotto notti è una favola, una storia del tutto inventata: per ammissione dello stesso autore, è una reazione liberatoria ai tre anni passati a scandagliare realisticamente la propria vita nel memoir Joseph Anton. Di certo, è il meno naturalistico e il più favoloso dei suoi libri: anche se non comincia con il classico «c’era una volta», tutta la vicenda, imperniata sullo scontro tra forze della luce e del buio, ovvero della ragione e della religione, è ambientata in un tempo ormai mitico, lontanissimo da chi narra – studiosi del XXXI° secolo che, dal futuro remoto, ripercorrono i fatti tra mito e leggenda – ma molto vicino al nostro presente.

Potrebbe sembrare un canovaccio fantascientifico; si sono sprecati i riferimenti al fantasy, ma anche ai fumetti della Marvel e alle saghe fantastiche televisive. Prima di tutto, invece, è una fiaba all’orientale, simile, per struttura e contenuti, a quelle già scritte da Rushdie per i suoi figli: Harun e il mar delle storie, il primo lavoro pubblicato dopo la fatwa, storia di una lotta tra le buie potenze dell’oscurantismo e quelle solari dell’immaginazione, e Luka e il fuoco della vita, l’avventura magica di un bambino che combatte le forze del decadimento e della morte, per impedire (letteralmente) al padre di spegnersi. L’intenzione di mettersi sulla scia dei grandi fabulatori orientali è, del resto, già implicita nel titolo del romanzo: due anni, otto mesi e ventotto notti equivalgono a mille e una notte.

Al centro della vicenda è la Guerra dei Mondi, che si immagina scoppiata sulla terra, più o meno ai nostri giorni, nel momento in cui si riaprono le fessure, da secoli ricoperte «dall’erbaccia immaginaria della consuetudine e dai rovi della monotonia», tra il nostro mondo e il «mondo di sopra», Fairyland, abitato dai favolosi Jinn, (più noti da noi come «geni») magiche creature di fumo, capaci di assumere qualsiasi sembianza.

Dopo una tremenda tempesta in cui non è difficile ravvisare un cataclisma dovuto al riscaldamento globale, il fantastico irrompe nel nostro pianeta, dando luogo a una serie di «anomalie», mostruosi giochi del «caso congiunto all’allegoria e al surrealismo». Ricostruite da storici – o antropologi – del quarto millennio unendo leggende, miti e frammenti di ricordi ormai remoti, le battaglie, le discussioni tra filosofi defunti, le imprese degli eroi, degli spiriti malvagi e delle principesse fatate, finiscono per dar luogo a un’apocalittica visione della nostra contemporaneità.

Come sempre in Rushdie, l’allegoria non è fine a stessa, ma si mescola all’allusione, in un trionfo di riferimenti tanto alle più svariate e variegate mitologie – dai miti islamici a quelli indù e yoruba – quanto all’attualità, al mondo dei media, ai fumetti, ai blockbuster hollywoodiani. Mentre il pastiche s’impregna di filosofia, la storia strizza l’occhio alla cronaca, e il racconto adotta ora la temporalità sospesa della fiaba ora la «velocità pura» della fantascienza e dei disegni animati.

Le storie si intrecciano, si rincorrono, si generano l’una dall’altra, in un continuo gioco di scatole cinesi. Definire la genealogia dei jinn, delineare il filo delle loro avventure sulla terra, anche solo accennare alle infinite «anomalie» che vivacizzano la narrazione, significherebbe rovinare il piacere della lettura, purtroppo in alcuni momenti già compromesso da una traduzione un po’ troppo scolastica, che non sempre riesce a rendere la pirotecnia narrativa di Rusdhie, la sua capacità di manipolare visualmente il fantastico per creare ora una New York del futuro prossimo straniata e inquietante ancor più di quella immaginata da Lethem in Chronic City, ora una Fairyland popolata da jinn che a tratti ricordano i cronopios e i fama di Cortázar.

Le tre citazioni poste in esergo al romanzo svelano l’intento di Rushdie nello scrivere questa fiaba per adulti. Nella prima, presa dal poeta anglo-ungherese George Szirtes, si insiste sull’assenza di dogmi che caratterizza la favola, introducendo il rifiuto di Rushdie a fedi e filosofie che non tengano in conto «l’imprevedibilità e la mutevolezza del mondo»; nella seconda citazione, facendo proprie le parole di Calvino nel Visconte dimezzato (romanzo da lui amatissimo, già fonte di ispirazione per i Versi satanici) Rushdie enfatizza l’espediente dei narratori immaginari, che dal futuro guardano al passato remoto, dichiarando di aver voluto scrivere il libro che gli sarebbe piaciuto leggere, «un libro trovato in soffitta, d’un autore sconosciuto, di un’altra epoca». L’ultima citazione, dalle Mille e una notte, riconduce il romanzo nel solco della favolistica orientale, suggerendo ironicamente l’identificazione di Rushdie con Sheherazade.

In effetti, la protagonista di Due anni, otto mesi e ventotto notti è una principessa jinn chiamata Dunia che, unendosi al filosofo realmente esistito Ibn Rushd, da noi meglio conosciuto come Averroè, dà vita alla progenie di Duniazat, con esplicito riferimento a Dunyazad, la sorella di Sheherazade che, nelle Mille e una notte, innesca il meccanismo dei racconti, sollecitando la «tessitrice delle notti» a narrare una storia prima di essere giustiziata. Ma non basta: Ibn Rushd, il progenitore del secolarismo islamico, era talmente amato dal padre dello scrittore da spingerlo ad adottare Rushdie come nome della propria famiglia. È evidente l’identificazione, nel romanzo, tra l’autore e il pensatore, entrambi destinati a pagare di persona per l’affermazione delle proprie idee. Non a caso, all’inizio, Dunia definisce Ibn Rushd un’anti-Sheherazade che, invece di narrare per salvarsi la vita, proprio narrando la mette a repentaglio. Considerate le questioni parodiate nel romanzo, una simile affermazione pare alludere non solo al passato dello scrittore, ma anche all’immediato presente. Più ancora che nei Versi satanici, infatti, qui Rushdie irride le follie teocratiche e ogni sorta di integralismo, auspicando l’avvento di un mondo senza religioni e senza dei.

Ibn Rushd non è, tuttavia, l’unico personaggio in cui l’autore si può riconoscere.Il protagonista maschile della storia, Mister Geronimo, un giardiniere indiano figlio di un prete cattolico, come Rushdie ha ampiamente superato la sessantina e non è particolarmente attraente, eppure è concupito da giovani donne affascinanti (non ultima delle quali la stessa Dunia, ritornata sulla terra quasi un migliaio di anni dopo la sua relazione con Averroè, per chiamare alla lotta la vasta progenie dei suoi discendenti).

Geronimo, straniero errante che «avrebbe voluto avere radici forti e ben piantate in ogni centimetro» del suolo perduto di Bombay e invece lievita a mezz’aria in una New York apocalittica, senza poter né scendere a terra né librarsi in volo, colpisce come un’auto-raffigurazione, comica e tenera allo stesso tempo, del suo autore.

Del resto, proprio a proposito di Geronimo, lo scrittore osserva che «è nella natura dei lavoratori tradurre se stessi nella propria opera». Non è un caso, quindi, se il mondo civile e pacifico da cui i fittizi studiosi del futuro guardano al tumultuoso passato è descritto come «un mondo di giardinieri, in cui ciascuno coltiva il proprio giardino e non la prende come una sconfitta … ma come una vittoria del suo lato migliore sull’oscurità che si porta dentro». Un mondo perfetto, simile a quello immaginato da John Lennon nella sua canzone più famosa: senza religioni, senza nazioni, senza paradisi, solo cielo, un cielo vuoto, da cui è impossibile irrompano di nuovo creature fantastiche, visto che le fessure tra Fairyland e il mondo di sotto sono sigillate dalla fine della Guerra dei Mondi.

E sono forse sigillate troppo bene, perché l’umanità, poco a poco, ha perso la capacità di sognare: quel lato oscuro, irrazionale, che ciascuno si porta dentro, ormai domato, non può più liberarsi nelle visioni notturne. La ragione ha vinto sulla religione, la scienza sulla fede ma, se il sonno della ragione genera mostri (come ammonisce la famosa incisione di Goya posta in apertura di volume), il sonno della fede genera il vuoto.

All’alba, Sheherazade discretamente tace: il racconto è attività notturna, sogno che libera i fantasmi della mente. Senza sogni, non c’è racconto: le storie appartengono a una stagione lontana, al tempo della crisi, al «tempo fuori di sesto». I narratori fittizi del romanzo ripercorrono queste storie con intento scientifico: «Noi siamo la creatura che racconta storie a se stessa per comprendere la propria natura», affermano, presentandosi all’inizio della vicenda. Ma forti della sola ragione, non si arriva a comprendere: il nostro io razionale, sveglio, e quello irrazionale, sognante, non si possono separare. Come Rushdie ha detto nel corso di una intervista in cui citava il titolo di un famoso racconto di Delmore Schwartz, «nei sogni cominciano le responsabilità».