«Ero solo, m’ero fermato un momento a guardare di sotto restando attaccato alla roccia con una sola mano. E pensai che era bello sentirsi così, vivi e padroni della propria vita affidata solo a un appiglio, niente chiodi e altri legami… In quel momento, durato i pochi minuti di un’arrampicata velocissima che pure mi parve immobile, io ero entrato in un ritmo in cui l’azione non era preceduta dall’ideazione, ma era scaturita da se stessa senza alcun bisogno di pensare e di volere».

Forse puoi anche chiamarti Alex Honnold, la star del free solo e dell’arrampicata di velocità, o Adam Ondra o Sasha DiGiulian, tra i più forti climber di ultima generazione, e non aver mai provato a «usare» la montagna alla maniera di Luigi Mario, classe 1938 con le sinapsi di un ventenne, che quando all’inizio degli anni ’50 apprese i primi rudimenti di alpinismo, frequentando da intruso perché minorenne un corso del Cai, si sentì dire da un istruttore come Dado Morandi: «Tu sei molto bravo e magari diventi un altro Comici, però non devi arrampicare senza corda perché altrimenti muori prima».

Eppure c’è poco cronometro e nessuna GoPro, nell’approccio che Luigi Mario propone per godere della libertà di apprendere un’arte che come ogni «vera arte non ha scopo, non ha alcuna intenzione». Un approccio che racconta ne «Lo Zen e l’arte di scalare le montagne» (Monte Rosa edizioni, pp. 244, euro 14.50), una sorta di autobiografia che si dipana, intrecciando appunti di viaggio, ricordi, analisi politiche e consigli pratici di preparazione atletica, tra la storia dell’alpinismo italiano, la filosofia buddista e la pratica Zen.

Nessun totem, però, perché Luigi Mario, il romano che ha sconfitto i pregiudizi dell’élite alpina ripetendo le vie più difficili delle Dolomiti, è non solo arrampicatore leggiadro ma anche un «uomo lieve», come lo definì Dino Buzzati, tanto da concludere il suo libro con un concetto che pare rimettere in discussione tutto: «Se c’è qualcuno che fa alpinismo puro sono proprio i mercenari, come vengono definite le guide alpine, ovvero chi si fa pagare per andare in montagna. Niente narcisismo ipocrita e falsi valori: “la montagna mi fa sentire più vicino al cielo, scalo per la ricerca del mio vero sé…” e tutte le altre frottole ripetute senza vergogna. Una guida non ha bisogno di giornalisti, né di pubblico, e tantomeno di facebook e riviste specializzate. Gli alpinisti tanto osannati, i cosiddetti puri, continuano a vendere le proprie scalate all’infinito, addirittura anche dopo morti. Alla guida, così come al maestro, basta condividere coi discepoli quanto s’è vissuto, da cuore a cuore».

Personalità complessa, monaco Zen (ordinato nel 1971 a Kobe, in Giappone, con il nome di Engaku Taino) sifu di taichi, e maestro di sci e alpinismo ancora oggi tra i più prestigiosi, a Gigi Mario si deve la chiodatura di numerose vie lunghe del Gran Sasso dal 1955, quando «ovunque si andasse e in qualunque stagione, c’erano i calzoni alla zuava di lana o di velluto, i calzettoni al ginocchio», la corda di canapa «lunga al massimo 40 metri», e «ovviamente gli scarponi» al posto delle scarpette d’arrampicata.

È stato lui ad attezzare, tra le altre, l’intera falesia di Ferentillo, in provincia di Terni, dove con la spittatura della prima via – «A nord dell’Igor» – inaugurò nel 1988 di fatto l’epoca dell’arrampicata sulle palestre di roccia nell’Appennino, con vie chiodate a breve distanza per permettere anche ai principianti l’ascesa da capocordata. «Ferentillo fu peraltro in Italia il primo comune – targato non Pci, come tutti nella zona, ma Dc – a finanziare un progetto di questo tipo», racconta «il maestro», come è chiamato dagli allievi sportivi e dai discepoli del monastero di Scaramuccia, da lui fondato sulle colline d’Orvieto nel 1973.

In quel tempio sono passati in tanti, a praticare la meditazione Zazen sotto la guida spirituale di Engaku Taino, perfino Gianni Alemanno e Paolo Giachini, l’avvocato-amico di Erich Priebke. Ma Luigi Mario, «primo di sei figli che ha cominciato a lavorare a 16 anni e ancora non ha smesso», con un «nonno anarchico perseguitato dal fascismo», da sempre tiene insieme marxismo e buddismo.

E all’agonismo estremo e allo sfruttamento della montagna, in ogni senso, oppone un punto di vista quasi rivoluzionario: «Io non posso e non voglio pensare soltanto alla mia cima e alla mia incolumità: la cima di tutti viene prima della mia cima, l’incolumità di tutti viene prima della mia incolumità».