È un monito neppure troppo velato quello che Matteo Salvini indirizza a Luigi Di Maio uscendo dal colloquio con Mattarella, ed è anche un segnale bellicoso rivolto allo stesso presidente: «Su qualche punto importante ci sono visioni diverse: o c’è un accordo omogeneo oppure gli accordi un tanto al chilo non fanno per me». Il leghista elenca uno per uno i punti sui quali il contratto che, secondo i giuramenti della vigilia, doveva essere a un millimetro dalla firma, è invece ancora in bianco. Se non proprio tutta l’agenda, quasi: immigrazione, infrastrutture, giustizia. E soprattutto il rapporto con la Ue: «Il governo parte se può ridiscutere i vincoli sull’Europa. Se non possiamo non cominciamo neanche».

MA GLI SCRICCHIOLII più allarmanti per la tenuta di una maggioranza che al momento non esiste sono forse altri. Il capo del Carroccio ricorda di essere lì «in rappresentanza del centrodestra». Significa che non vuole né può accettare mediazioni che renderebbero inevitabile lo strappo con un Berlusconi uscito rafforzatissimo dalla riabilitazione. Non a caso Salvini pronuncia l’eloquente frasetta subito dopo aver segnalato la distanza tra Lega e M5S sulla giustizia. Ma non è difficile indovinare che anche l’insistenza dei 5S su Di Maio premier non può aver luogo a procedere. Per Fi e FdI sarebbe inaccettabile. E il «ringrazio Di Maio» con cui il leghista chiude il discorsetto pare calibrato apposta per adombrare il commiato. Poi c’è la battuta che si lascia scappare Giorgetti rispondendo a chi gli chiede se è più vicino l’accordo o il voto. «L’accordo per il voto» replica il numero due della Lega. Poi chiarisce che è solo uno scherzo, ma si sa che nulla vale quanto uno scherzo per dire verità impronunciabili.

TUTT’ALTRA MUSICA aveva suonato poco più di un’ora prima, il leader dei 5S. Quando esce dalla sala delle vetrate l’espressione è tesa, ma le parole non potrebbero essere più rassicuranti: qualche giorno in più per stilare un contratto vincolante per 5 anni e per consultare la base. Ma con tutto «l’orgoglio» per il lavoro già svolto. Anche quel particolare atteso e mancante, il nome del premier, il leader dei 5S lo sdrammatizza: «Io e Salvini abbiamo deciso di non fare nomi». Una scelta, mica un’impossibilità.

Non è affatto così. Lo scontro sui programmi delineato senza ipocrisie da Salvini è reale. Le distanze tra due leader che sanno di dover rendere conto alle proprie basi, e quella di M5S non è affatto tranquilla, ma nel caso del leghista anche ai propri alleati, sono davvero ampie. Ma certo il braccio di ferro sui capitoli del contratto veicola, e in parte maschera, quello sul nome del premier e probabilmente anche dei ministri. Ieri sono stati mandati allo sbaraglio e maciullati due possibili presidenti del consiglio: l’economista di area Carroccio Giulio Sapelli e il giurista vicino ai 5S Giuseppe Conte. Nessuno dei due è mai arrivato a essere davvero candidato ed è difficile dire se uno o l’altro dei due partiti puntassero davvero su quei nomi o fossero solo ballon d’essai. In ogni caso il capo dello Stato avrebbe fatto garbatamente intendere che nessuno dei due, nonostante i meriti, corrisponde all’«alto profilo istituzionale» necessario in questo caso. In ballo, a quel punto, era rimasto solo Conte, proposto, ma senza impegno e comunque inutilmente, da Di Maio.

NON È IL SOLO PUNTO sul quale il presidente ha bocciato il progetto sin qui partorito dai tavoli di Roma e del Pirellone. Non approva l’insistenza di Salvini sulla guerra contro gli immigrati, e tanto meno l’ipotesi che a guidare la crociata sia il leader del Carroccio, in veste di ministro degli Interni. Non può ammettere che il «contratto» preveda una dichiarazione di sganciamento imminente dai vincoli europei. Ma il presidente avrebbe sollevato dubbi anche sul punto sul quale l’accordo era già stato stretto, la Flat tax: mancherebbero coperture convincenti.

IL PERCORSO SCELTO dal tandem gialloverde non piace al Quirinale anche e forse soprattutto per motivi strettamente istituzionali. L’assenza di un presidente incaricato rende impossibile intrecciare un contatto diretto, continuo e impegnativo. La decisione di ricorrere alla «consultazione degli iscritti» di M5S, alla quale ha fatto eco quella leghista di convocare i gazebo per il week-end, è del tutto irrituale. Nulla da eccepire, poi, sulla richiesta di avere a disposizione tutto il tempo necessario per mettere a punto un programma serio: ma senza andare avanti chiedendo ogni due giorni una proroga, il che tutto sembra tranne che serio.

TUTTAVIA MATTARELLA non vuole che si possa in alcun modo addossare al Colle la responsabilità di un eventuale fallimento. Concederà il tempo richiesto. Ma con dei limiti. La settimana prossima almeno il nome del premier i due litigiosi soci dovranno averlo trovato.