Domani la commissione giustizia del senato potrebbe votare il testo sulla diffamazione «…con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione…».

Si tratta del disegno di legge 812, presentato nel settembre del 2018 da Giacomo Caliendo di Forza Italia. Relatore Armando Lomuti del Mov5Stelle.

Non è la prima volta (è la quinta legislatura della serie?) che il parlamento discute di un problema che vede l’Italia nel libro nero della Corte europea dei diritti umani, a causa della persistenza nel nostro ordinamento della pena del carcere per i giornalisti; cui non è concesso l’errore, scivolando quest’ultimo facilmente nel girone dell’inferno della diffamazione.

Anche perché spesso grandi gruppi finanziari ovvero organizzazioni non commendevoli usano ricorrere alla querela come forma di intimidazione e di condizionamento, al di là dell’esito del procedimento intentato. Sull’argomento delle lite temerarie, sempre al senato, è in corso l’iter del testo a firma di Primo Di Nicola (5Stelle), che sarà abbinato in aula a quello sulla diffamazione.

Torniamo al ddl prossimo al voto. Purtroppo, la lettura evoca il vecchio adagio «perseverare è diabolico».

Siamo fermi alla contraddizione seriale di tale materia. Da un lato si cancella la detenzione, dall’altro si ribadiscono le multe, davvero troppo elevate: fino a 15.000 euro in caso di attribuzione di un fatto determinato (giudicato falso), per arrivare a 50.000 euro se vi è consapevolezza della stessa falsità.

Se nella routine della macchina informativa «vero» e «falso» sono facilmente distinguibili, laddove ci si inoltri in complicate scatole societarie o in racconti di malavita (rapporti tra persone generalmente coperti da omertà e segreti), la narrazione perfetta non è semplice. È qui che generalmente si infierisce contro il cronista, che magari incorre in errore e tuttavia senza alcun dolo.

Diciamo un’amara verità.

La pesantezza delle multe pecuniarie, solo un assaggio delle botte dei risarcimenti chiesti poi in sede civile, risentono di una limitata conoscenza degli attuali mestieri della comunicazione, lontanissimi dai trattamenti economici privilegiati supposti dall’immaginario di parte almeno dei decisori. La grande maggioranza di chi opera nel settore ha (se li ha) contratti precari e intermittenti, mentre numerosi giornali non sono neppure in grado di contribuire alle eventuali spese. Insomma, va approvata una legge non per ricchi, bensì per ceti impoveriti e attraversati da una crisi occupazionale profonda.

Che fine farà, dunque, l’attuale ennesimo testo, che si incaglia su di un nodo colpevolmente irrisolto da anni? Ed è un nodo che riguarda da vicino il tessuto democratico, il pluralismo e l’equilibrio tra i poteri.

La via maestra sarebbe seguire la linea anglosassone della depenalizzazione del reato.

Oggi è talmente cruciale la ricerca della verità contro l’omologazione e i pensieri unici, che una politica lungimirante dovrebbe accompagnarla e favorirla con un atto di creatività giuridica.

A meno che non si voglia condannare l’Italia a rimanere nella classifica bassa sul tasso di libertà di informazione nel mondo.

O che si preferisca indurre la Corte europea dei diritti dell’uomo a intervenire nuovamente. O che si scelga la strada pilatesca di lasciare il campo alla Corte costituzionale.

La federazione della stampa ha ben chiarito le cose, l’associazione «Articolo21» ha raccolto centinaia di firme, «Ossigeno informazione» ne ha parlato in maniera perfetta offrendo aiuto a coloro che si prendono una querela. Magari per un virgola.