In un impegnato articolo sul manifesto, Paolo Favilli si è lamentato circa la genericità e fumosità di certe formulazioni politiche di tanti dirigenti della sinistra. Condivido. Mi è capitato di dirlo più volte.

Dubito, invece, sulle ragioni di Favilli, quando include nella critica una frase che mi appartiene e rivendico: «Occorre che il Pd ponga rimedio alla scarsa empatia verso la sofferenza dei disagiati». In questa affermazione c’è il nucleo fondamentale della nostra crisi; che non deriva da una insufficienza di analisi e di indagine sulla fase attuale capitalistica.

Gli intellettuali e gli economisti in questi anni hanno riempito librerie con opinioni divergenti tra loro, tutte con la pretesa di essere scientifiche e tutte in reciproca contraddizione. I grandi mutamenti, tanto più oggi, non derivano meccanicamente dalle lezioni contenute nei libri. Ma dalla capacità di una politica coraggiosa e lungimirante di incontrarsi, al momento giusto, con il tracimare, dentro l’anima delle masse, della rabbia e del dolore per la propria condizione. Fu così anche per la rivoluzione del’ 17 in Russia, che smentì la profezia di Marx e non attese la maturazione dello sviluppo capitalistico e borghese che egli riteneva necessario.

Riferendosi, più modestamente, a noi, nella babele di linguaggi stereotipati che ci sommerge, la sola cosa utile che avverto chiara è quella di tornare (come Machiavelli suggerisce di fare nei momenti di crisi di un organismo politico) ai principi: intesi come il fondamento e la base della propria scaturigine e ragione di esistenza.

Tale fondamento per la sinistra, in ogni tempo e in ogni luogo, è il ribaltamento del rapporto di forza tra chi sta sopra e chi sta sotto. È l’insopportabilità (persino psichica) del contatto con il sopruso e l’offesa verso gli indifesi. Tale insopportabilità non si avverte senza un’empatia verso il prossimo. Vale a dire una capacità di avvertire dentro di sé la sofferenza dell’altro. In mancanza di ciò, le analisi o i programmi risultano disincarnati, puro ideologismo. Certo, tale sentimento è solo la premessa (ma indispensabile) di ogni movimento, che poi ha bisogno di una politica che lo interpreti e lo organizzi.

Il punto a cui siamo, e che riguarda tutta la sinistra di governo e di opposizione, manifesta chiaramente il nostro distacco con le persone e la loro vita nuda.

Abbiamo tentato, nel passato, di superare tale distacco attraverso l’idea speranza che la conquista del governo potesse bastare a costruire i nessi sociali e a colmare i vuoti di rappresentanza drammaticamente aperti; o con l’illusione che attraverso l’invocazione del “più a sinistra”, del “più partito”, del “più sindacato” ritornasse la fiducia nelle fasce più dolenti della società.

Gli ultimi risultati elettorali hanno spazzato via definitivamente ambedue le pretese.

Favilli se la prende con la parola “campo”, che io ho usato spessissimo, come ampliamento del concetto di partito.

Proprio il ritrovamento di un campo, di luoghi aperti, liberi e abitati dalle persone nell’esercizio della propria responsabilità personale; la cessione di una parte di sovranità alla base della piramide, con i rischi che comporta; la consapevolezza che non esistono più filtri che selezionano le persone e le loro domande; l’accettazione del carattere contraddittorio, incompleto, rabbioso, del tentativo di cambiare la propria vita, da parte di tanti cittadini dispersi e soli; la pazienza nel ricostruire reti terragne di dialogo e lavoro comune del tutto innovative; tutto questo può forse farci superare una lettura libresca e illuminista della realtà (nel migliore dei casi) o (quando si è caduti nel peggio) una deriva politica, che riguarda anche noi, segnata da troppe ambizioni di potere e di promozione sociale di se stessi, che ci ha reso subalterni alla cultura dominante.

Se non invertiamo la rotta, inevitabilmente, la “rivoluzione” continuerà a farla la destra, senza grande pensiero, con parole scorrette, priva di analisi serie: ma forte di un’empatia verso le persone concrete in cerca di una speranza.