Quando uscí, nel 1883, Une vie, Una vita, il romanzo di Guy de Maupassant con la sua critica cruda alla chiesa e alla borghesia provocó una deflagrazione. A distanza a quel testo si ispira per il suo nuovo film, Une vie, in concorso, Stéphane Brizé, autore sconosciuto per la tv finché non è planato in gara sulla Croisette due anni fa vincendo il premio per il migliore attore, Vincent Lindon, con La loi du marché, La legge del mercato uscito anche nelle nostre sale.

Nel portare sullo schermo la vita della baronessa Jeanne devastata dagli obblighi della sua classe e dalla sua inerzia, Brizé non cerca nessun tipo di «rilettura» né si misura in modo personale con le atmosfere e le esistenze che lo popolano. La sua messinscena si concentra sulla protagonista, che in un crescendo di antipatia, si limita a svolazzi nell’orticello paterno, a sospiri ipocriti, a capricci davanti al mare e alle nuvole, secondo una maldigerita «lezione malickiana».

Di lei e del suo «alter ego», la serva primo tradimento del marito, e «peccato originale«»della sua sfortunatissima esistenza, non sapremo nulla così come di nessun personaggio. Addirittura la cameriera quasi non la vediamo in faccia, visto che Brizé in un delirio narcisista di primissimi piani inutili la stringe nell’inquadratura mostrandoci al massimo un orecchio, un ciuffo di capelli, una porzione di sguardo.

Per due ore il regista insegue le sue ambizioni autoriali agitando la macchina da presa senza alcuna consapevolezza e soprattutto senza alcuna visione personale, un’idea di regia o narrativa, qualcosa che riempia il vuoto delle sue immagini infilate l’una dopo l’altra nel vuoto.