Comincia il giorno più lungo per Virginia Raggi: questo pomeriggio ci sarà la sentenza del tribunale monocratico di Roma. Alla sindaca di Roma si contesta di aver mentito all’Autorità anticorruzione quando, nel dicembre del 2016, le chiese se il suo allora braccio destro Renato Marra aveva avuto un ruolo nella promozione del fratello Raffaele al vertice del dipartimento turismo del Campidoglio. Lei negò. «Marra ci ha messo la manina ma la sindaca sapeva», ha detto invece ieri il pubblico ministero Paolo Ielo nel corso della sua requisitoria, chiedendo una pena di 10 mesi per falso in atto pubblico. La legge Severino consentirebbe alla sindaca di procedere tranquillamente con la sua amministrazione. Ma questa storia ha ormai assunto un peso politico che va oltre la contestazione specifica.

IL CODICE PENALE si è intrecciato alle norme che disciplinano il Movimento 5 Stelle, dal momento che il Pm ha chiesto che venisse messo agli atti il regolamento grillino, perché «in base al codice etico allora vigente negli M5S, avrebbe dovuto dimettersi». È un punto centrale, secondo la pubblica accusa, perché da questo passaggio deriverebbe il movente che avrebbe spinto Raggi a dichiarare il falso: oltre a voler proteggere Marra, la sindaca sapeva che se avesse ammesso il ruolo di quest’ultimo probabilmente sarebbe stata iscritta nel registro degli indagati. All’epoca dei fatti, lo statuto del M5S prevedeva che tanto bastasse per essere espulsi. Nelle sue dichiarazioni spontaneee, l’imputata ha smentito questa circostanza, sostenendo che nei fatti la prassi di far fuori dal M5S un semplice indagato non è mai stata mai applicata nel caso di altri sindaci. Oggi, tuttavia, per essere incompatibili con la disciplina interna è necessaria una condanna, anche solo in primo grado. Come ribadito da Luigi Di Maio parlando alla stampa estera mentre a piazzale Clodio era in corso l’udienza: «Non conosco l’esito del processo ma il nostro codice di comportamento parla chiaro e lo conoscete».

LA PRECISAZIONE DEL CAPO politico grillino, che nei momenti più difficili dell’affaire Marra aveva difeso Raggi e le aveva consentito di andare avanti, non era scontata. Tra le soluzioni ventilate per venire a capo della vicenda in caso di condanna c’era ad esempio il ricorso ad un voto sulla piattaforma Rousseau. Sarebbe stato una sorta di giudizio d’appello popolare per Raggi, che si trova al secondo mandato elettivo e dunque in caso di interruzione improvvisa della consiliatura terminerebbe qui la sua carriera nel M5S. In serata dai vertici del M5S trapelavano indicazioni ancora più esplicite: «In caso di condanna Raggi verrebbe automaticamente considerata fuori gioco». A quel punto si aprirebbero due scenari. Il primo, quello più lineare, prevede le dimissioni, la nomina di un commissario da parte del ministro dell’interno e il voto alla prima occasione utile, che potrebbe coincidere con le elezioni europee della prossima primavera. Per i romani sarebbero le terze elezioni amministrative in cinque anni. L’altro scenario è più clamoroso, vede la sindaca rifiutarsi di lasciare il Campidoglio, autosospendersi dal M5S assieme alla sua maggioranza e continuare ad amministrare Roma senza il simbolo a 5 Stelle.

L’arringa della difesa è prevista nella mattinata di oggi. L’ultima udienza è stata caratterizzata dal duello a distanza tra la stessa Raggi e Carla Raineri, il magistrato che la sindaca aveva chiamato in Campidoglio come capo di gabinetto all’indomani della sua elezione. Presto Raineri era entrata in rotta di collisione con il «cerchio magico» costituito attorno a Raggi da Salvatore Romeo, dall’allora vicesindaco Daniele Frongia e dallo stesso Renato Marra. Fino a compilare una specie di memoir sul suo mese in Campidoglio, un dossier molto duro che Raineri ha confermato nei suoi punti sostanziali: «Marra aveva un fortissimo ascendente su Raggi. Lo chiamavano Rasputin, laddove la sindaca era paragonabile alla zarina. Chiunque si fosse messo di traverso avrebbe fatto una pessima fine», ha detto.

RAGGI HA INVECE DEFINITO «paradossale» la deposizione della sua ex funzionaria e ha sostenuto che quest’ultima aveva un filo diretto con Marcello Minenna, l’alto funzionario chiamato come assessore al bilancio e al patrimonio che si dimise insieme a Raineri. Minenna se ne andò sbattendo la porta e diffondendo giudizi impietosi. Tuttavia, e conoscendo le rigidità del mondo grillino è abbastanza sorprendente, non è un mistero che l’economista non abbia rotto del tutto i suoi rapporti col M5S, tanto da essere in lizza per dirigere la Consob. Forse anche questo è un segnale di allarme per la sindaca in attesa di giudizio: non tutti dentro ai 5 Stelle si sono conformati alle sue scelte politiche. E non è detto che qualcuno aspetti la sentenza di oggi per togliersi qualche sassolino dalla scarpa.