Lunedì il Consiglio dei ministri approverà il disegno di legge costituzionale con il quale Matteo Renzi vuole mettere fine al bicameralismo paritario. Ci sono solo due precedenti di riforme costituzionali ad ampio spettro firmate direttamente dai governi, negli ultimi quindici anni. Il primo è la riforma del Titolo V imposta al parlamento dal governo di centrosinistra (D’Alema-Amato) e da tutti – anche da Renzi – considerata un esempio di riforma fallimentare. La seconda è la riscrittura della Costituzione firmata da Berlusconi e ispirata da Calderoli, abbattuta poi dal referendum popolare. Questi sono gli auspici, non buoni. E volendo si potrebbe aggiungere all’elenco il recente disegno di legge Quagliariello che interveniva su un solo articolo della Carta, il 138, ma come premessa a una generale riscrittura. Anche quel tentativo è finito male (per il voltafaccia di Forza Italia); anche quello ha accompagnato la fine del governo che lo aveva proposto. Renzi sa quello che rischia.
Il partito democratico, per il momento, lo segue. Con blande critiche e mugugni alla nuova formulazione del senato, non più elettivo, da parte dell’opposizione bersaniana – ma Cuperlo ha preventivamente aperto anche al rafforzamento dei poteri del premier, in regime iper maggioritario -, che alla fine si è astenuta. Con critiche più nette da parte della minoranza di Civati – ha parlato il senatore Casson – che poi ha votato contro. Premessa a un voto contrario nell’aula al senato che può essere importante: alla legge costituzionale non basterà la maggioranza semplice che il governo ha raccolto sulle province (senza i due terzi c’è il referendum). Forza Italia non si è ancora sfilata, ma certo la firma di Renzi (con Boschi e Del Rio) in calce al disegno di legge non facilita il lavoro all’opposizione (Gasparri e Matteoli già protestano).
Davanti alla direzione del Pd, ieri pomeriggio, Renzi non ha voluto dedicare troppe parole alla riforma del bicameralismo. Basta un tweet, ha detto. Un po’ perché gli argomenti erano molti, un po’ perché «sono solo 30 anni che se ne discute, le posizioni sono note». E poi, ha avvertito, il partito ha già approvato le linee guida della riforma in una precedente direzione. Vero, ma allora – 6 febbraio scorso – Renzi aveva detto che il nuovo senato non poteva che essere costruito attorno ai sindaci dei comuni capoluogo («l’Italia l’hanno fatta le città»). Adesso l’impostazione è rovesciata e la parte del leone nel nuovo «senato delle autonomie» la faranno presidenti e consiglieri regionali. Senza contare che in quella direzione Renzi aveva addirittura chiesto scusa per aver dato l’impressione di voler trattare la riforma del Titolo V assieme a quella del bicameralismo: ieri ha sostenuto che è giusto e utile affrontare i due argomenti in un unico disegno di legge costituzionale. Vero è che quel 6 febbraio il segretario del Pd aveva anche invitato Enrico Letta, seduto in prima fila, ad andare avanti…
Lunedì dunque il Consiglio dei ministri approverà il disegno di legge che trasforma il senato in un organo di rappresentanza di secondo livello: non sarà più eletto dai cittadini. Lunedì è il 31 marzo: «Avevamo promesso di presentarlo entro marzo» ha fatto il guascone Renzi, dimenticando che la prima promessa era per il 15 di febbraio. I colloqui con i rappresentanti di regioni, comuni e consigli regionali non hanno permesso di trovare un accordo, visto che ognuno partiva da richieste opposte. La delegazione dei nominati dal Quirinale diminuirà notevolmente (dovevano essere 21, tanti quanto un gruppo parlamentare) ma non dovrebbe sparire del tutto. Resta il potere del governo di imporre al parlamento la discussione di un disegno di legge entro 60 giorni o meno (e restano i decreti legge, strumento per lo più sconosciuto altrove), mentre il rafforzamento dei poteri del premier dovrebbe essere affidato a un emendamento successivo. Resiste in una parte della minoranza Pd l’intenzione di tornare alla carica sulla eleggibilità dei senatori, tutti o «almeno una quota», come ha detto il portavoce dei «Giovani turchi» Verducci, senatore. Per Renzi e i renziani si tratta di resistenze corporative: «C’è un consenso da parte dei cittadini che i senatori non possono ignorare», ha detto la ministra Boschi, che spera ancora che la riforma venga approvata prima delle elezioni europee. Citato en passant nella direzione Pd anche l’appello di diversi giuristi (Carlassare, Azzariti, Rodotà, Zagrebelsky e altre personalità) contro la riforma costituzionale e della legge elettorale. L’appello denuncia il tentativo di una «svolta autoritaria». Per Cuperlo «non va preso come un tentativo di sabotaggio».