«Al senato ce la facciamo. Ce la facciamo». Renzi lo ripete due volte, come si fa quando bisogna dare coraggio – o darselo. Al presidente del Consiglio tocca commentare i quotidiani squilli di guerra del capogruppo di Forza Italia Brunetta (capogruppo alla camera) secondo il quale Berlusconi ha ormai deciso di non votare la riforma del bicameralismo proposta dal governo. Il penultimatum di Brunetta è più spericolato del solito: legge elettorale approvata entro pasqua o addio al patto Renzi-Berlusconi. Naturalmente è impossibile: prima di pasqua c’è una sola settimana di lavoro parlamentare. Poi è dell’altra riforma, quella costituzionale, che si sta parlando. E soprattutto Berlusconi non ha alcuna convenienza, e dunque alcuna aspirazione, a tagliare adesso l’ultimo filo che lo tiene legato al gioco politico. Così come Renzi non ha alcuna garanzia di poter approvare la sua riforma senza il voto dei sessanta senatori di Forza Italia.

Minaccia e controminaccia sono pura tattica. Al di là degli slogan del presidente del Consiglio, al senato non stiamo assistendo ad alcuna corsa. Al limite un puro agitarsi sul posto. Il testo del governo ieri sera non era neanche arrivato a palazzo Madama e ancora questa settimana la commissione affari costituzionali si dedicherà ad altro. Oggi l’ufficio di presidenza scriverà il calendario delle convocazioni, il testo annunciato in conferenza stampa a palazzo Chigi si conosce solo perché pubblicato sul sito del governo. Anche il paletto estremo di Renzi è destinato a saltare. È ormai impossibile portare la legge costituzionale al voto definitivo del senato entro le elezioni europee di fine maggio. Anzi, nella bozza del Programma nazionale delle riforme, che sarà discussa oggi dal Consiglio dei ministri, la data limite per la prima lettura della riforma del bicameralismo – camera e senato – pare sia stata spostata a settembre di quest’anno. Silenzio assoluto sulla legge elettorale.

Se è incerta la data, sarebbe incerto anche l’esito del voto nel caso il governo decidesse di forzare la mano sul nuovo assetto del senato. In teoria si tratta di un testo condiviso dalla grande maggioranza dell’aula, superiore ai due terzi, quota che secondo l’articolo 138 in terza e quarta votazione escluderebbero la possibilità di chiedere il referendum confermativo. Senza Forza Italia però il castello crolla. Perché, a meno di un improbabile soccorso leghista, basterebbero una decina di senatori del Pd (o magari dell’ala centrista della maggioranza, dove pure covano insoddisfazioni) per portare la legge sotto la soglia minima della maggioranza assoluta. Lì dove per esempio si è fermata la conta nell’ultima occasione importante al senato, il voto sulle province il 26 maggio scoro: 160 sì che nel caso della revisione costituzionale non bastano (manca un voto).

«Non accettiamo ultimatum da nessuno, tantomeno da Brunetta. Se loro ci stanno al gioco delle riforme noi ci stiamo, altrimenti le facciamo noi», assicura Renzi. E il sottosegretario Delrio va in tv a confermare il messaggio: «C’è l’accordo con Forza Italia, le riforme si fanno insieme, ma abbiamo anche la determinazione ad andare avanti con la nostra maggioranza». I numeri però non lo seguono. E non lo segue nemmeno tutto il partito: le due mediazioni che Renzi ha messo in cantiere, evitando di correggere il disegno di legge governativo, così da lasciare margini alla trattativa (e cioè via i 21 senatori di nomina presidenziale, proporzionalità tra popolazione della regione e numero di senatori nominati), non bastano. Il punto di dissenso della ventina di parlamentari democratici che hanno firmato la proposta di Vannino Chiti è la mancata elezione popolare dei senatori. Punto sul quale Renzi è stato tassativo: mai più senatori eletti. Dunque margini non ce ne sono, e ha poco senso il ragionamento del presidente del Consiglio sul fatto che la proposta Chiti è minoritaria. Lo è certamente, anche mettesse insieme i voti dei 5 stelle, di Forza Italia e di Sel. Il problema è però un altro: il problema sono i voti che mancherebbero al disegno di legge del governo.

L’idea poi di un «piano B», cioè della possibilità di far votare la riforma a un’altra maggioranza, si scontra con la determinazione di Renzi a non tornare indietro, per recuperare l’elezione diretta dei senatori. Il discorso con Sel, parte del Pd e ex grillini andrebbe riaperto da capo. Al limite avrebbe più possibilità la cancellazione totale del senato. Con un’altra legge elettorale per la camera, però.