«Con la spersonalizzazione siamo passati dal 40 al 18 per cento». Così l’ex segretario del Pd Renzi si ripresenta alla riapertura della stagione politica: lo dice prima dalla Palombelli a ‘Stasera Italia’, poi lo ripete più volte alle feste di partito. Un’affermazione surreale, totalmente falsa, che tenta di scaricare su altri le ragioni del disastro, secondo un copione già visto.

Perché prima di essere goffo ed artefatto, l’argomento del leader toscano è del tutto infondato. Anche se lui forse pensa che a distanza di tempo una bugia, pur così palese, possa diventare una mezza verità. Almeno tra i suoi fedelissimi.

La realtà è che Renzi nel corso del 2017 ha continuato ad imperversare su tutti i media, personalizzando, altrochè, la lunga campagna elettorale del Partito democratico. Il disastro del 4 marzo non è il frutto della sobrietà di Gentiloni, ma dei gravi errori politico-mediatici del rottamatore. Ce lo dicono i numeri e i fatti. Incassata la sconfitta del referendum del 4 dicembre, dopo una breve assenza si è ripresentato con forza sulla scena pubblica. Twitter, Facebook, soprattutto l’amata tv si riempiono nuovamente di sue dichiarazioni, battute, invettive. Prima ancora che parta la gara congressuale è già da Fabio Fazio in tv alla fine di febbraio. Poi resta sull’onda mediatica per i due mesi successivi grazie alle primarie che lo riportano al vertice del partito.

E una volta rieletto torna ripetutamente in tv. Nei telegiornali per il Pd è quasi sempre lui a parlare: e il suo partito è quello più in alto di tutti nel tempo di parola, surclassando di parecchio gli altri. Spesso succede anche su Mediaset. L’interferenza mediatica è tale e così inequivoca che a luglio perfino un renziano come Claudio Velardi è costretto ad intimargli di smetterla di tornare «compulsivamente sulle cose fatte dal suo governo», invitandolo a «tacere» per parlare «solo quando ha da dire cose nuove, e di peso». Ma lui insiste. Ed anche con la pubblicazione del suo libro, ‘Avanti’, personalizza più che può l’arena pubblica.

Si muove nel corso della lunga estate per centellinare anticipazioni e polemiche, ottenendo una serie infinita di citazioni nei tiggì e sui media. Ripete lo stesso copione anche quando sembra scegliere altre strade, come il viaggio in treno di ottobre per ascoltare i cittadini. Sul treno la scena è solo sua, e di un contorno di ragazze e ragazzi che cambiano ad ogni tappa. Un viaggio di ‘ascolto’, dunque, dove più che ascoltare, parla, parla di tutto, con la tv che lo segue tappa dopo tappa. Ad ottobre (dati Geca-Italia) compare in video per 13 ore, a novembre poco meno, secondo solo a Berlusconi ma inanellando più ore del premier Gentiloni, e doppiando addirittura Salvini e Di Maio.

Dei programmi in video non ne tralascia alcuno: oltre ai soliti talk (‘Otto e mezzo’, ‘In Mezz’ora’, ‘Che tempo che fa’) per utilizzare ogni spazio possibile decide di recarsi anche dove fino ad allora aveva polemicamente disertato: si presenta così da Floris a ‘Dimartedì’ il 7 novembre, e da Formigli a ‘Piazza Pulita’ il 14 dicembre. Come il Berlusconi del 2013 va dai ‘nemici’ per giocarsi il tutto per tutto. Il Tg1 consegna al suo Pd, un mese prima del voto, il 25% del tempo di parola (vedi tabelle Agcom di gennaio ‘18). Alla fine di gennaio è da Barbara D’Urso, camicia bianca d’ordinanza, alla domenica pomeriggio. C’era stato poche settimane prima.

L’esposizione rallenta solo per la par condicio e quando i sondaggi oramai dicono che il Pd renziano sta sotto il 22%. I dati e un pochino di memoria dimostrano dunque che Renzi si ripropone nella campagna del 2018 alla solita maniera, alla ricerca del rapporto ‘diretto’ e personale con la gente, più che convinto di riuscire a portare a casa comunque un consenso che faccia del Pd il primo partito (con i risultati che sappiamo).

C’è da chiedersi come abbia fatto l’ex boyscout di Rignano, dopo avere riempito i media così tanto, a raccogliere nelle urne così poco.