I mondiali di calcio rappresentano un fenomeno identitario, sociale ed economico che entra nelle nostre vite, eppure resta un oggetto di studio ampiamente sottovalutato dalla storiografia italiana, persino nel quadro della storia dello sport. Attualmente i principali studiosi del calcio italiano sono stranieri: il francese Fabien Archambault, autore di Le contrôle du ballon, una pietra miliare non ancora tradotta in italiano, e l’inglese John Foot, che ha scritto Calcio 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia. Difficilmente si trova un divario così ampio tra la centralità che il calcio ha nella vita e nell’immaginario di milioni di persone e un simile disinteresse da parte della storiografia italiana. Una delle ragioni è che il calcio paga l’idea di essere una pratica culturale poco nobile e di essere oggetto di un interesse eccessivamente popolare agli occhi di certi professori universitari. Sembra rappresentare una controtendenza un interessante libro appena pubblicato, Storia della Coppa del Mondo di calcio (1930-2018). Politica, sport, globalizzazione ( Le Monnier, euro 16). Incontriamo gli autori Nicola Sbetti, ricercatore presso l’Università di Bologna, esperto di storia dello sport in relazione alla politica internazionale, autore di Giochi di Potere, le olimpiadi da Atene a Londra ( 1896-2012) e Riccardo Brizzi docente di Storia contemporanea, presso Sciences Po Paris.

I mondiali di calcio rappresentano solo un fatto di costume?

La storia dei Mondiali di calcio è anche una storia politica, interagisce con essa in un rapporto multiforme e simbiotico. Non si tratta semplicemente di un fenomeno di costume, il calcio è considerato un elemento centrale della vita associativa, ma è al contempo uno degli ambiti privilegiati sui quali la cultura di massa e la politica si incontrano e creano un’interazione che è fatta di passioni, condizionamenti, sconfinamenti, strumentalizzazioni. La struttura dei Mondiali, tende a perpetuare la raffigurazione di un mondo diviso geograficamente e socio-politicamente in Stati-nazione in competizione fra loro, proponendo una semantica nazionale fatta di inni, stemmi e bandiere che riproducono un feticismo spaziale, dove blocchi di territori pensati come omogenei sono affiancati e mai sovrapposti. Gli incontri di calcio, in cui l’immediata comprensione del «noi» e dell’«altro» finisce per stimolare stereotipizzazioni in senso sia positivo che negativo, contribuiscono a riprodurre un’immagine di nazione che tende a negare quei fenomeni di denazionalizzazione, deetnicizzazione e deterritorializzazione, spesso presenti invece all’interno degli Stati.

La scelta della sede dei mondiali ha un significato politico?

La scelta del Paese organizzatore è, volontariamente o meno, un atto politico. Lo è stato fin dal 1930, quando l’assegnazione della prima edizione cadde sull’Uruguay che aveva fatto pressioni per inserire l’evento nei festeggiamenti per il centenario della sua indipendenza. Lo è stato ancor più nel 2002, con la prima candidatura congiunta con cui Repubblica di Corea e Giappone hanno celebrato simbolicamente la loro riconciliazione, dopo decenni di grandi tensioni seguiti all’occupazione coloniale giapponese. La storia dei mondiali di calcio è ricca di episodi, che sottolineano il valore politico centrale del calcio nelle nostre società, alcuni come le strumentalizzazioni da parte di Mussolini delle vittorie della nazionale italiana negli anni Trenta e di Videla per quella argentina nel 1978, sono evidenti, altri, come i festeggiamenti in Iran per la qualificazione ai mondiali del 1998, che portarono le donne a scendere in piazza violando convenzioni e divieti, sono più sottili. Altri ancora, come l’appello effettuato da Didier Drogba a deporre le armi e organizzare libere elezioni in una Costa d’Avorio lacerata dalla guerra civile, pronunciato dagli spogliatoi subito dopo la partita, che sancì la qualificazione della propria nazionale a Germania 2006, sono ignoti ai più.

I Mondiali in Russia hanno anche un significato geopolitico, oltre che calcistico?

Mosca ha fortemente voluto i Mondiali del 2018, poiché rientrano in una più ampia strategia in cui lo sport viene usato dal Cremlino per rispondere a tre esigenze primarie: rafforzare l’immagine internazionale della Russia, definire le priorità dello sviluppo regionale e infine mantenere il consenso sia delle élite politico-economiche, in particolare dei cosiddetti oligarchi, sia delle masse. Non a caso la loro organizzazione era stata affidata a Vitaly Mutko, che dal 2008 al 2016 ha ricoperto la carica di ministro dello Sport. I Mondiali di calcio rappresentano l’ultimo grande appuntamento, il fiore all’occhiello di un decennio 2007- 2018, in cui la Russia ha ospitato venticinque importanti eventi sportivi internazionali fra cui i mondiali di atletica, nuoto, hockey su ghiaccio e le Olimpiadi invernali di Soči. Alla vigilia di un mondiale per cui non si è badato a spese, sono già molti gli aspetti che segnalano che l’edizione del 2018 potrebbe rientrare tra le più politicizzate della storia dei mondiali di calcio. Le scelte di alcune sedi di gara, in particolare quella di Kaliningrad o la stessa Soči, situata nel cuore del Caucaso a pochi chilometri dagli Stati cuscinetto dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia, che Mosca ha sostenuto nella guerra alla Georgia del 2008, sembrano chiaramente influenzate da considerazioni di natura geopolitica.

Quali sono le realtà che partecipano al mondiale per la prima volta?

Le qualificazioni hanno visto la partecipazione di nuove realtà geopolitiche come il Sudan del Sud e il Kosovo, che proprio attraverso lo sport avevano da tempo cercato di accrescere la propria legittimità internazionale, il Bhutan, Gibilterra, che pur essendo stata fondata nel 1985 è diventata membro della FIFA solo nel 2016, malgrado l’opposizione della Spagna. In Russia faranno il proprio esordio nella fase finale l’Islanda e Panama, che si è qualificato a spese degli Stati Uniti, il giorno dopo l’impresa, è stato decretato dal governo festa nazionale.

Organizzare i mondiali di calcio è sempre più difficile?

Malgrado le molte complessità, questo appuntamento garantisce al Paese ospitante una legittimità internazionale paragonabile solo alle Olimpiadi estive e superiore a qualsiasi altro evento sportivo. Non è un caso che le due principali potenze di questo inizio di XXI secolo, Stati Uniti e Cina, abbiano già espresso la volontà di organizzare una delle prossime edizioni.

Europa e America Latina hanno fatto il loro tempo?

Il duopolio fondativo Europa-America Latina, che sostanzialmente ha retto sino alla fine degli anni Ottanta del XX secolo, è un lontano ricordo e tutti i continenti, ad eccezione dell’Oceania, hanno ospitato un’edizione della Coppa del mondo, oggi reclamano un ruolo attivo all’interno della Fifa. Il calcio sotto questo aspetto rappresenta senz’altro uno degli ambiti in cui la globalizzazione ha avuto maggiore successo e in cui, al contempo, ha riservato sorprese. L’estensione dei confini del calcio, la sua crescente commercializzazione e i condizionamenti delle logiche televisive e di marketing, hanno a lungo alimentato la convinzione di una progressiva marginalizzazione delle nazionali di fronte allo strapotere economico e mediatico dei club. All’interno di un mondo e di un calcio sempre più globalizzati, i mondiali di calcio non solo sono sopravvissuti, ma hanno consolidato la propria statura di megaevento internazionale, sia sul piano sportivo sia su quello economico e politico. Il suo successo si colloca lungo un confine sottile: la competizione ha sposato e per alcuni versi promosso le logiche della globalizzazione, ma al contempo ha usufruito della rivitalizzazione delle identità locali, che si è amplificata all’inizio degli anni Duemila e di cui le squadre nazionali simbolicamente restano una delle ultime vestigia, contribuendo a fare della Coppa del mondo di calcio la madre di tutte le competizioni sportive di squadra.