Il poeta greco Odisseas Elitis (1911-1996), Premio Nobel per la letteratura nel ’79, viene spesso etichettato come «cantore dell’Egeo», per citazioni che inneggiano al sole, al mare, alle bianche casette cicladiche. Un’immagine edulcorata, perché al contrario l’universo di Elitis è complesso e variegato, e soprattutto poggia su una solida architettura filosofica.
Uno sguardo complessivo alla sua produzione poetica è offerto dalla recente antologia curata dal valente grecista Filippomaria Pontani: Odisseas Elitis, Poesie, Crocetti Editore (pp. 228, e 16.00) . Numerosi sono i pregi del volume: un’introduzione snella ma densa di dettagli accompagna il lettore lungo il percorso poetico di Elitis. Il libro propone un interessante intreccio traduttivo: due poesie vengono offerte nella versione di Nicola Crocetti, e il corpus restante è frutto di un commovente dialogo a distanza fra padre (il grande grecista Filippo Maria Pontani) e figlio (Filippomaria Pontani). Infatti spesso le traduzioni del figlio si inseriscono discrete, ma lucide e precise, fra le liriche rese dalla mano possente del padre, in una equilibrata «conversazione» intergenerazionale. Un doppio binario, vibrante della passione di chi ha dedicato la propria vita alla lingua greca.
Folgorante l’incipit dell’introduzione, che riesce a sintetizzare capisaldi della poetica di Elitis: «Poesia come sensazione, trasparente come la luce, luminosa come il sole, magica come il mare, concreta e forte come la Grecia; poesia come frutto di una lingua che non conosce il chiaroscuro, lingua perenne che guida la parola sull’onda della sua forza morale prima ancora che estetica o espressiva (…)».
Importante capire gli esordi di Elitis: ventenne, egli respira l’atmosfera degli anni trenta, che in Grecia segnano la nascita delle avanguardie – di cui anch’egli diventerà alfiere. Con alcuni amici (anch’essi futuri protagonisti della scena culturale greca), percorre in lungo e in largo la Grecia a quel tempo selvaggia, a bordo di una Chevrolet, macinando chilometri fra polvere, sabbia, pantani, sole a picco o acquazzoni. In un’ebbrezza liberatoria, Elitis scopre così che il paesaggio non è la pura somma di alberi e montagne, ma «una semantica di significati multipli». La natura è costituita da un alfabeto di elementi naturali e di messaggi arcani, che vanno decriptati e riversati in poesia attraverso un processo di mitogenesi, senza però le convenzionali figure del mito.
Ed ecco che la luce inonda i suoi primi versi, in un trionfo di sensualità dionisiaca, all’insegna della metamorfosi. Nel suo incessante susseguirsi di coste e colline, la natura greca ha infatti un carattere dinamico: il mare abbraccia la terra in anfratti e insenature, o viceversa la terra si allunga nel blu con promontori e lingue di sabbia. Lo stesso andamento dovrà seguire la sua trasfigurazione poetica, attraverso una lingua audace e sperimentale che si mette alla prova in volteggi, impennate, giustapposizioni, rifrazioni, metafore, sinestesie, cortocircuiti alogici e onirici. È la versione mediterranea della lezione surrealista, che cercava fra le vie di Parigi la sorpresa dell’inatteso a-razionale: Elitis invece ricompone quelle istanze in equilibrio e misura, per immergersi nel palpito dell’Egeo e nell’incanto della natura greca.
I fulgidi versi delle prime raccolte (1940 e 1943) grondanti di luce, gli procurano accuse di disimpegno e indifferenza alle sofferenze della nazione, provata dalle tragedie della Seconda guerra mondiale. Ma Elitis sta elaborando il suo concetto di Grecità e in Canto eroico e funebre per il sottotenente caduto in Albania (1945) il sole si eclissa, per dare voce al sacrificio del singolo che lotta per la libertà. Dopo un decennio di gestazione arriva il capolavoro, Axion esti (Dignum Est, 1959) che, come ha spiegato lo stesso Elitis, nasce dalla necessità di rispondere all’urto violento della Storia per ritrovare, grazie alla poesia, i fondamenti spirituali della Grecia. In una complessa architettura di stratificazioni culturali, il poema rievoca la Grecia primigenia all’atto della creazione, i secoli di lotte, per chiudersi infine con un inno di lode alla Grecia tutta, cantata nel suo paesaggio, con le feste, la sua gente, le fanciulle… Grazie alla potenza demiurgica della parola, il poeta costruisce un mondo rigenerato, più vero e più ‘degno’, che supera le definizioni nazionali e temporali, per diventare paradigma di una ‘patria’ universale.
In tutta la sua produzione Elitis esalta la lingua greca, nella sua ricchezza ancestrale e stratificata, e ben arduo compito è pertanto la traduzione di quel «caleidoscopio molecolare di elementi che roteano e si combinano nei versi», come sottolinea Pontani. Il bell’italiano di questa versione immerge il lettore nel flusso del rovello linguistico del poeta, che crede nello strumento-lingua per «ricreare» il mondo, non però allo scopo di dissolverlo in pallida astrazione. Occorre invece «spremere» la materia attraverso il filtro della lingua, che deve mantenere la sua polpa carnosa senza scadere in un dettato facile e accomodante. Se la voce di Pontani padre suona a tratti grave, con scelte preziose o latineggianti che elevano senza tuttavia creare stonature (ad esempio «procella» per tempesta, «aquilifero» come traduzione-calco di aetòforos, detto del vento, in Marina delle rocce), Pontani figlio si orienta a una mirabile limpidezza fluida che attira il lettore-navigante ad affrontare questo «poeta delle nuvole e dei flutti» (così Elitis si definisce in Axion esti) e a scoprirne la profondità sotto la scorza musicale del logos.
Notevoli anche le liriche dell’ultima fase poetica, proteiforme negli accenti e nelle tematiche: eros, nostalgia, memorie rarefatte, dialogo con l’oggi, divertissements, mentre la lingua si frammenta in una sintassi sospesa ed enigmatica, che si fa partitura di impressioni cromatiche (Elitis fu anche pittore) e meditazione sulla vita, la morte, il tempo, la tradizione.
Un invito a viaggiare con Elitis nella Grecia che si scioglie in poesia.