Selahattin Demirtas, l’ex parlamentare e co-presidente del Partito Democratico dei Popoli (Hdp), si trova nel carcere di Edirne dal 4 novembre 2016. Tra le tante accuse, quella di aver «fondato un’organizzazione criminale» e di «appartenere a un’organizzazione terroristica armata».

Sono ormai passati cinque anni per l’ostaggio politico più noto del Paese, ostaggio del processo più kafkiano della storia della Repubblica di Turchia. E questo nonostante una pronuncia della Corte costituzionale del giugno 2020 in cui si afferma la presenza di una serie di violazioni tra cui il prolungato periodo di detenzione. Pronuncia a cui ha risposto il collegio giudicante con nuove accuse.

A dicembre 2020, è la Grande Camera della Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) a chiedere l’immediata liberazione di Demirtas per una detenzione definita «politica». Ma per Recep Tayyip Erdogan le decisioni della Cedu non hanno mai rappresentato un vincolo anche perché la detenzione del leader dell’Hdp è ormai una questione personale.

«La Cedu ci condanna per tenere in carcere l’ex presidente di un partito legato al Pkk. Una persona che incitando la gente a scendere in piazza ha causato la morte di 50 cittadini», così affermava nel 2018 il presidente turco. Ad accusare di «terrorismo» Selahattin Demirtas c’è anche il leader ultranazionalista Devlet Bahceli, alleato della coalizione che siede ad Ankara.

Ovviamente in questo elenco non possono non mancare i media filogovernativi, che da anni alimentano odio e tensione sociale. YeniAsir, Takvim, Yeni Akit, Haber7, Sabah, Tgrt, Ilk Kursun, Aksam e Beyaz Gazete sono solo alcuni mezzi di comunicazione che negli anni hanno contribuito alla stigmatizzazione di Demirtas quale «politico vicino alle organizzazioni terroristiche». Sono giornali e canali televisivi di proprietà delle cinque grandi società del settore energetico e delle costruzioni, le stesse che fanno grandi affari negli appalti pubblici e nelle quali siedono uomini vicini al presidente e suoi familiari.

Un avvocato curdo. Selahattin Demirtas nasce nel 1973 a Elazig ma cresce ad Amed (Diyarbakir). Si laurea in legge ad Ankara e diventa avvocato. Si occupa di omicidi politici e casi di persone scomparse e nel 2004 diventa presidente dell’Associazione per i Diritti umani (Ihd) della sede di Amed.

Nel 2006 è eletto come parlamentare con una lista civica appoggiata da diversi partiti di sinistra, superando così l’alto sbarramento elettorale del 10%. Nel 2012 inizia a fare politica nel partito Hdp di cui diventa il co-presidente con la parlamentare Figen Yuksekdag nel 2014. Nello stesso anno si candida alle presidenziali incassando uno storico 9,76%, malgrado un’asfissiante censura mediatica e un linciaggio politico senza precedenti.

La vera sorpresa arriva nel 2015 quando il suo partito ottiene più di 6 milioni di voti e introduce 80 deputati nel parlamento nazionale impedendo al partito di Erdogan, per la prima volta dopo 13 anni, di comporre un governo monocolore. Un risultato senza precedenti se si tiene conto della repressione poliziesca contro i membri di un partito giovanissimo.

E ancora nel 2018, nonostante la detenzione, Demirtas partecipa nuovamente alle elezioni presidenziali incassando l’8,4% dei voti. Un risultato frutto di proposte inclusive e di una visione politica unica e antitetica a una Turchia «turco-bianca-musulmana-sunnita-maschilista».

Un processo kafkiano. Il processo di Demirtas coinvolge anche altri parlamentari, anche loro arrestati e detenuti dopo il fallito golpe del 2016 durante lo stato d’emergenza. In questo maxi processo sono tante le irregolarità. Per esempio, compare il nome di un testimone anonimo, spesso citato con lo pseudonimo Mercek (la lente).

Secondo le dichiarazioni rilasciate da questo testimone, nel 2009 Demirtas intervenne in parlamento esprimendosi in lingua curda seguendo le indicazioni provenienti dal Kck, l’Unione delle Comunità del Kurdistan, organizzazione armata inserita nella lista del «terrore» in Turchia. Eppure, a fare quel discorso in curdo fu un altro parlamentare, Ahmet Turk. Per di più, secondo il tribunale penale di Ankara (16 febbraio 2018) non è mai esistito un testimone noto come Mercek, né c’è mai stata una dichiarazione del genere.

Tuttavia, il 4 novembre 2016, l’arresto dell’avvocato curdo partì a causa delle presunte dichiarazioni di questo supposto testimone. La cosa più tragicomica è il fatto che il procuratore che ordinò l’arresto dell’ex parlamentare sia stato egli stesso arrestato con l’accusa di appartenere alla comunità di Gulen, considerata l’artefice del fallito golpe del 2016 e definita dallo Stato come un’organizzazione terroristica.

Secondo i procuratori, un altro valido motivo dietro l’arresto di Demirtas sono le «telefonate con alcuni membri del Kck». Si tratta d’intercettazioni di conversazioni telefoniche di un parlamentare avvenute senza autorizzazione del parlamento. Per di più, le persone elencate in questa lista di «terroristi» erano all’epoca parlamentari, sindaci e consiglieri comunali del partito Hdp.

A confezionare la pesante accusa, sempre lo stesso procuratore. Tra le carte ci sono anche numerosi riferimenti ai discorsi parlamentari di Demirtas. Peccato che secondo l’art. 83 della Costituzione, gli interventi parlamentari dei deputati non possono essere soggetti a indagini e gli stessi deputati non possono essere denunciati e/o processati per gli stessi.

Insomma è chiaro quanto la detenzione di Selahattin Demirtas non abbia alcuna base giuridica ma sia di fatto un’operazione squisitamente politica.

In carcere cresce un politico e nasce uno scrittore. I discorsi in aula di Demirtas sembrano tratti da lezioni universitarie per il loro valore didattico e per lo spirito satirico. «So che questo governo perderà e questo Paese si riprenderà. Tuttavia alcune persone pagheranno il conto davanti alla legge. Mi volete condannare a 142 anni di galera? Mi raccomando fatelo, ma se mi condannerete a 141 anni non vi perdonerò», così Demirtas concludeva nel marzo 2021 il suo discorso in aula.

Nel luglio 2019, tramite le note che consegnava ai suoi avvocati, pubblicava un vademecum dedicato ai «papabili d’arresto». Tra i consigli: «Quando entrate in carcere, il primo giorno, ti perquisiscono con l’obiettivo di togliere tutto quello che non è permesso introdurre dentro. Tuttavia non riescono a togliere le tue idee che sono alla base delle motivazioni del tuo arresto. Una procedura molto interessante».

Durante la campagna elettorale del 2016, dal carcere e per corrispondenza, ha composto un brano musicale, cantato al telefono a sua moglie, in cui invitava le persone a resistere contro i tiranni. Gli unici mezzi a disposizione erano gli incontri con famiglia e legali e l’uso limitato del telefono fisso.

Seher, Devran, Leylan e Efsun sono i quattro romanzi che Selahattin Demirtas ha scritto in questi cinque anni di detenzione. L’ex co-presidente del Partito democratico dei Popoli continua a lanciare messaggi politici e sociali, pubblicati su Twitter tramite gli avvocati difensori e la moglie e grazie a una serie d’interviste giornalistiche.

Selahattin Demirtas, l’avvocato che ha dedicato la vita in difesa degli oppressi, degli ultimi e degli emarginati, è oggi l’unico politico in grado di mettere fine al regime di Erdogan e del suo partito. Oltre e nonostante la detenzione. Per questo è l’ostaggio politico più importante di Turchia.