Epurazioni, rimozioni forzate? No, il Pd diviso su tutto per una volta si è messo d’accordo sul vocabolario dell’imbarazzo. Quello che è successo martedì mattina si chiama «sostituzione temporanea» dalla commissione affari costituzionali della camera. «Di massa», aggiunge polemicamente Rosy Bindi, una dei dieci rimossi. Ma persino la combattiva ex presidente Pd sul manifesto quasi ’giustifica’ il suo partito: il gesto «è grave sul piano politico» così grave che «non ha bisogno della nostra drammatizzazione», spiega, ma non illegittimo: «Sapevamo che si sarebbero fatti forti di una norma regolamentare». Enzo Lattuca, altro sostituito, sul Fatto, si spinge ad ammettere che quella rimozione gli ha persino fatto tirare un sospiro di sollievo: «Ci hanno sostituito com’è nella libertà del capogruppo. Non abbiamo opposto resistenza perché questa scelta garantisce la libertà di non votare contro la propria coscienza in commissione». Libertà che quindi il giovanissimo deputato non crede di avere.

La norma a cui entrambi si riferiscono è l’art.19 del regolamento della camera, comma 3, che recita: «Ogni Gruppo può, per un determinato progetto di legge, sostituire un commissario con altro di diversa Commissione, previa comunicazione al presidente della Commissione». La ragione non è specificata. Eppure in ogni caso «la garanzia del libero mandato copre l’intera attività parlamentare», ha scritto il costituzionalista Gaetano Azzariti ieri sul manifesto, e l’art.67 della Costituzione (che dice: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato») «non si arresta di fronte alle porte delle commissioni».

In effetti di «drammatizzazione» se n’è vista ben poca. Anzi Gianni Cuperlo e Barbara Pollastrini, altri due ’rimossi’, hanno dichiarato «rispetto» per la decisione. Di più: il vicesegretario Guerini, il presidente Orfini, il vicepresidente vicario del gruppo Pd Rosato e perfino il relatore della legge Gennaro Migliore, tutti con Renzi, hanno potuto sostenere che la scelta della sostituzione è stata consensuale, ricordando che nell’assemblea del 15 aprile Bersani e Cuperlo avevano annunciato che, nel caso, l’avrebbero «rispettata». Dagli altri rimossi qualche protesta è pure arrivata, ma solo sul piano politico. Nessuno ha contestato la legittimità della decisione del gruppo Pd. Tanto che mercoledì il commissario Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia) ha potuto commentare a sfottò che sarebbe stato pronto a dare manforte a un eventuale ricorso, peccato che nessuno lo ha presentato.

Ieri anche Gianni Melilla, di Sel, ha chiesto di convocare una riunione urgente della Giunta per il regolamento della Camera «per impedire che una prepotenza produca effetti sulla legge elettorale». Melilla fa parte della Giunta dove, a rigor di logica e di schieramento politico, la maggioranza dovrebbe essere favorevole agli (ingiustamente?) rimossi. Se non che i rimossi non ricorrono, e a Melilla non è rimasto che prendere atto: «Quella sostituzione è assurda, contraria al diritto costituzionale ed al diritto parlamentare» ma soprattutto «quell’obbedir tacendo è inconcepibile».

Dagli obbedienti taciturni non è arrivata nessuna risposta. E se ne può anche capire la ragione: la situazione di alcuni di loro ormai acquista velocità su un piano inclinato. E i dissidenti del Pd, gli ultrà anti- renziani in queste ore stanno prendendo una decisione capitale. Altro che regolamenti: il voto sull’Italicum sarà l’ora della verità. Ieri una riunione ristretta di Area riformista ha ribadito il sì alla legge, obtorto collo, ma soprattutto sì all’eventuale fiducia. Perché chi non la voterà sarà considerato di fatto fuori dal partito.