In mattinata Nichi Vendola non ci vuole credere. In diretta su La7, alla domanda di Enrico Mentana sul secondo mandato di Napolitano che si avvicina a grandi passi, replica secco: «L’ipotesi non esiste». L’ipotesi invece diventa realtà di lì a poche ore. E il Pd sa che Sel non ci sta. La condizione che il presidente della Repubblica ha posto per accettare la sua riconferma – mille volte rifiutata – sono le famigerate larghe intese fra Pd e Pdl, indigeribili per l’alleato di sinistra.

Nel pomeriggio, mentre inizia la sesta e definitiva votazione sul presidente della Repubblica, Vendola annuncia ufficialmente il suo voto sul giurista Stefano Rodotà: «solidarietà» a Bersani, «una delle persone più perbene che abbia conosciuto in vita mia», e «affetto personale e grandissimo rispetto per il vecchio Napolitano che raccoglie con straordinaria generosità l’invito a tornare in campo in un ruolo di supplenza rispetto a un sistema avvitato». Ma alla sua rielezione Sel dice un no che è «un no secco a un’ipotesi che svela la tessitura in atto della tela delle larghe intese». Vendola va oltre e anticipa un annuncio pensato con tempi più dilatati: un’assemblea «per ricostruire la sinistra di governo» per l’8 maggio a Roma. Un’appuntamento «aperta», che non dà illusioni a chi «vuole rifare la sinistra arcobaleno» e «riscivolare nel passato». E che invece punta ad attrarre quel pezzo di Pd che ha giurato no alle larghe intese. Vendola non si augura il crack dell’alleato, dice, ma «da sempre proponiamo di aprire un dibattito culturale e politico, ora si apre un nuovo percorso, dopo lo schianto del Pd».

[do action=”citazione”]L’8 maggio assemblea per dire no alla larga coalizione, si guarda al congresso del Pd. Che si farà «mentre si lavorerà al nuovo governo»[/do]

L’accelerazione non era prevista, e del resto non era prevedibile l’implosione del Pd sulla candidatura di Prodi al Colle. Ma in mattinata arrivano due segnali che Vendola non può ignorare: il no di Sergio Cofferati a un governo con il Pdl e la sua richiesta di anticipare il congresso. E il no a Napolitano di Fabrizio Barca, il ministro a lungo vagheggiato come possibile leader della sinistra Pd: «Incomprensibile che il Pd non appoggi Rodotà o non proponga Emma Bonino», dice via twitter.

Al pallottoliere finale, il no dei 45 grandi elettori di Sel non pesa numericamente sul plebiscito per Napolitano della sesta votazione. Ma prefigura un passaggio di Sel all’opposizione. Cioè l’esatto opposto di quella «riunione» fra Pd e Sel che nei giorni scorsi aveva proposto il giovane turco Matteo Orfini. «Mescola», l’aveva chiamata Vendola. Infatti i giovani turchi la prendono male. La scelta di Nichi è «assurda», «auguri» replica freddo Orfini, «ho passato tutta la notte per cercare di capire se c’erano possibilità reali di votare Rodotà. Non c’erano». Non ha parole più tenere per Barca: «Singolare, mi sembra che in queste ore ci sia un po’ di subalternità nei confronti del M5S. Certe posizioni sono distruttive, le battaglie vanno fatte prima insieme non cercando di distruggere il proprio partito».

Stefano Fassina rincara: le parole di Barca hanno «un tasso di populismo elevato», quanto a Sel «bisognava essere coesi su Napolitano, ci sarebbe stato il tempo per distinguersi in futuro». E poi c’è la marcia su Roma «contro il golpe» che Grillo annuncia e sconvoca nel giro di pochi minuti. Il campano Enzo Amendola sfida il professore e l’ (ex) alleato: «Che vogliono fare: ’Eja eja Rodotà’?». Le risposte, scontate, arrivano subito. Rodotà da Bari frena i suoi fan di piazza: «Sono sempre stato contrario a ogni forma di marcia su Roma». Vendola invita Grillo «a misurare le parole: non è un golpe, o un’involuzione autoritaria, ma la nomenklatura che si allea».

Ma il Pd tenta l’impossibile per ricompattarsi. Di conseguenza il clima fra le sinistre della coalizione è cambiato, anzi la coalizione di fatto non c’è più. E quelli che ieri erano confronti serrati per rinforzare il suo lato sinistro, oggi sono diventati battutacce: «Ho sentito che fai un nuovo partito?», dice Fassina a Migliore uscendo dall’aula. «Ho sentito che hai già espulso Barca dal tuo?», è la risposta.

La sinistra interna al Pd, dopo la frana del partito su Prodi, ora sta molto attenta a misurare le parole. Di scissione in realtà non ha mai parlato, puntando al contrario a estendere la propria influenza nel partito, aprendo un dialogo con l’ex avversario interno Renzi. Ora però è finita nella condizione opposta di rischiare il ridimensionata. Al congresso che «si farà parallelamente al lavoro con i gruppi parlamentari per far nascere il governo», spiega il vicesegretario dimissionario Enrico Letta. Ma con un Pd trasformato nel Pasok greco – che governa insieme al centrodestra di Nea democratia – «abbiamo buttato quattro anni di lavoro», commenta un giovane neoputato. Perché dopo il voto per Napolitano, la cui riconferma la sinistra aveva invocato dal principio, ora però deve il Pd si prepara al sì a un governo di larghe intese, forse persino con ministri targati Pdl nell’esecutivo. «Sono e resto contrario al governissimo, per questo vorrei sapere dopo le dimissioni di Bersani quale delegazione che andrà a fare le consultazioni e con quale mandato», dice Orfini. «Faremo di tutto per evitare le larghe intese», dice Andrea Orlando. Non è precisamente un grido di battaglia.