«Sel c’è», è«una comunità ferita, ma viva e intende ricominciare». Nichi Vendola, alla riunione della direzione – qui si chiama presidenza – si presenta dimissionario, ma come da copione viene confermato alla guida di Sel. Il partito-movimento nel pieno della sua notte più buia cerca un rilancio: con una nuova campagna di tesseramento, con un seminario chiamando i suoi professori. Per l’immediato lancia un’assemblea nazionale per i primi di luglio, discute con i compagni di strada della lista Tsipras (anche se ammette affinità solo «con una parte di essi»). Per il 2015 prepara l’offensiva del dialogo verso il centrosinistra per le regionali del 2015, anche se Vendola ammette che oggi c’è «il rischio di esaurimento del ruolo di Sel nel mondo nuovo di Renzi». Qui c’è il nodo delle famose, non da tutti apprezzate, «terre di mezzo» vendoliane.

Sel resta in quel territorio, «casa aperta per tutti quelli che hanno dubbi». E al Pd lancia la sfida «sulle riforme costituzionali», «sul tema pace e guerra», «sulle grandi opere che hanno per carattere costitutivo le grandi corruzioni».

Ma siamo a porte chiuse, e Vendola, sorvegliando le parole, esplode contro «gli amici di Renzi che fanno indecenti pressioni sui nostri parlamentari, avvertendoli che il treno passa ora o non passa più». E contro i fuoriusciti, con in quali pure chiede «di tenere aperto il dialogo» e invita i suoi a non alzare i toni. Ma avverte: «Non serve fare finta di discutere solo per farci più male possibile, tutto possono dire tranne di non aver avuto cittadinanza», dice all’indirizzo di Gennaro Migliore che è rimasto capogruppo alla camera nonostante l’aperta posizione di dissenso. Nella sala del centro Congressi Cavour, a Roma, c’è chi sta ancora decidendo se restare o no. «Lo stillicidio è un copione antipatico, la crisi covava da tempo e si conoscevano dall’inizio quali erano i parlamentari che avevano ormai risolto il loro rapporto con questa comunità», dice.

In mattinata sulla riunione di segreteria si abbatte l’addio del deputato numero dieci: è il tesoriere Sergio Boccadutri, già uomo-chiave della scissione del 2009. Boccadutri andrà a sedersi direttamente nei banchidel Pd, senza passare dal gruppo misto dove lo aspettavano i sette che lo hanno preceduto (ma i primi due fuoriusciti, Aiello e Ragosta, anche loro sono già nel Pd). Per lui Vendola ha parole affettuose: «Mi ha parlato, ha detto che con la testa era nel Pd da un anno, che se ne va in silenzio per farci meno male possibile».

Fra chi va e chi resta la differenza è «sul giudizio sulle larghe intese, sulla deberlusconizzazione della destra, sul renzismo». Quindi profonda. Renzi è «un forte innovatore», ammette Vendola, «come lo furono, al di là del merito, Crispi, Mussolini e Craxi». Ma «il carattere personalistico-populistico del renzismo può generare una deriva pericolosa». Il premier «non ha di fronte un ciclo lungo», anzi ha fretta perché quando sarà chiaro che i vincoli economici europei non si possono modificare tenterà la carta del «non mi hanno fatto lavorare» per tornare al voto, prima del 2018.

Ma non si può dire che il presidente abbia convinto tutti. Più tardi, in piazza San Giovanni, dove tiene un comizio insieme a Curzio Maltese, Pippo Civati e la femminista Ida Dominijanni, i militanti lo rincuorano. Ma nella sala del Cavour i dissensi restano. Alcuni sfilano sul palco, c’è anche chi tace per generosità verso ’la comunità’. C’è chi chiede il congresso straordinario. E chi, come il deputato sardo Michele Piras, non nasconde il disagio: «Di solito si parla del dolore e del travaglio di andare via, io vivo quello di restare». Il senatore romano Cervellini: «Vendola condivisibile ma insufficiente, serve uno shock, una proposta all’altezza della nostra crisi». E il genovese Stefano Quaranta, disposto alla ripartenza ma duro sull’analisi del leader: «Molti di noi non sentono alcuna fascinazione per Renzi. Il problema è tutto di Sel: serve recuperare lo spirito originario di sinistra nel centrosinistra, chiarezza nelle scelte e un gruppo dirigente nuovo. Sottovalutare il disorientamento significa morire».

La nottata non è passata, lo «stillicidio», anzi il «Sellicidio» non è finito. Comunque vada, il danno è fatto. Un danno, ammette Vendola, «non solo per Sel ma per l’immagine di una sinistra eternamente dilaniata».